Eugeny Morozov, Il Sole-24 ore 27/4/2010, 27 aprile 2010
CATTURATI DA UNA RETE DI LUOGHI COMUNI
No. Agli albori di internet, le speranze che nutrivamo erano molteplici. Come in qualsiasi storia d’amore che sboccia, abbiamo provato il desiderio di credere che il nostro affascinante oggetto d’amore potesse cambiare il mondo. Internet è stato esaltato come lo strumento ideale per migliorare la tolleranza, sconfiggere il nazionalismo, trasformare il pianeta in un villaggio globale interconnesso. Nel 1994 alcuni appassionati di digitale, guidato da Esther Dyson e Alvin Toffler, pubblicò un manifesto, sottotitolato con scarsa modestia "La Magna Carta dell’era della conoscenza", nel quale si prospettava l’avvento di "territori elettronici legati da interessi condivisi, più che dalla geografia". L’allora capo del MediaLab dell’Mit, Nicholas Negroponte, nel 1997 predisse che internet avrebbe abbattuto le frontiere tra paesi e spalancato le porte di una nuova era di pace. Internet esiste da una ventina d’anni e ha portato grandi innovazioni. La quantità di prodotti e servizi accessibili online è sbalorditiva. Anche le comunicazioni tra paesi si sono fatte più semplici: le costose bollette delle telefonate internazionali sono state sostituite da economici abbonamenti a Skype (nella foto). Google Translate offre un aiuto per navigare tra la pagine web scritte in spagnolo, mandarino, maltese e più di una quarantina di altre lingue.
Come rimasero deluse le generazioni che ci hanno preceduto, constatando che né il telegrafo né la radio avevano mantenuto le promesse, così pure noi non stiamo assistendo ad alcuna particolare affermazione nel mondo di pace globale, amore e libertà, come ci era stato pronosticato. Verosimilmente non vedremo cambi neppure in futuro. Molti dei network transnazionali sorti grazie a internet presumibilmente peggioreranno, invece di migliorare, il mondo che conosciamo. A un convegno sulle strategie per contrastare il traffico illecito di animali a rischio di estinzione, internet è stato individuato come il principale motore del commercio globale di specie protette. La Rete è un mondo nel quale gli attivisti omofobici serbi si ritrovano su Facebook per lottare contro i gay, e dove i conservatori dell’Arabia Saudita mettono online l’equivalente della Commissione per la promozione della virtù e la repressione dei vizi. E tutto ciò malgrado la "libertà di connessione" esaltata dal segretario di stato americano Hillary Clinton nel suo discorso su internet e diritti umani. Purtroppo, un mondo interconnesso non è automaticamente un mondo più giusto.
Sbagliato. I tweet non rovesciano i governi. Soltanto i popoli possono riuscirci. I siti di social network possono essere utili e nocivi per gli attivisti che operano in un regime autoritario. I sostenitori delle odierne proteste virtuali che proliferano e si moltiplicano in Rete fanno notare che i servizi online quali Twitter, Flickr e YouTube hanno reso più semplice la circolazione delle informazioni, molto più che in passato, quando il controllo esercitato dallo stato era rigido e inflessibile, specialmente per ciò che concerne fotografie o filmati raccapriccianti o le prove di violenze e abusi perpetrati dalla polizia o di ingiustizie commesse nei tribunali. Basti pensare ai blogger dell’opposizione che in Russia hanno lanciato Shpik.info sulla falsariga di Wikipedia, un sito che consente a chiunque di caricare foto, nomi e dettagli dei contatti di presunti "nemici della democrazia" - giudici, poliziotti, in qualche caso anche politici - accusati di complicità nell’imbavagliare la libertà di espressione. Il primo ministro britannico Gordon Brown l’anno scorso ha affermato che nell’era di Twitter il genocidio del Rwanda sarebbe stato impossibile.
Siamo sicuri che maggiore informazione si traduca in maggiori possibilità di raddrizzare ciò che non funziona? Non necessariamente. Né il regime iraniano (nella foto, i twitter con il volto di Neda) né quello burmese sono crollati sotto le pressioni delle foto digitali delle violenze e delle violazioni dei diritti umani fatte girare e postate sui siti di social network. Anzi, le autorità iraniane sono state leste a sfruttare i vantaggi offerti da internet, tanto quanto i loro oppositori di verde vestiti. Dopo le proteste di Teheran dell’anno scorso, le autorità iraniane hanno aperto un sito che pubblica le fotografie scattate ai manifestanti, incoraggiando gli utenti a dare loro nome e cognome. Contando sulle fotografie e i filmati caricati su Flickr e YouTube dai manifestanti e dai simpatizzanti in Occidente, la polizia segreta dispone di un’ingente quantità di documenti incriminanti. Né Twitter né Facebook offrono la sicurezza di cui necessiterebbe una rivoluzione di successo, e potrebbero finire col fungere da precoci campanelli d’allarme per i governanti più dispotici. Se nel 1989 i tedeschi della Germania Est avessero potuto utilizzare i tweet per esprimere i loro sentimenti, siamo sicuri che la Stasi non sarebbe intervenuta per reprimere il dissenso?
Anche nel caso in cui Twitter e Facebook consentissero di ottenere vittorie parziali, nessun giocatore d’azzardo oserebbe scommettere due volte sul successo di uno stesso trucchetto. Si prenda una delle campagne preferite degli utopisti digitali: a inizio 2008 un gruppo su Facebook fondato da un ingegnere colombiano di 33 anni portò a manifestazioni di massa e fino a due milioni di persone sfilarono nelle strade di Bogotà per dimostrare contro la violenza dei ribelli marxisti delle Farc. Quando questi stessi "rivoluzionari del digitale" a settembre hanno cercato di organizzare una marcia analoga contro il leader venezuelano e sponsor delle Farc Hugo Chávez, si sono trovati in grossa difficoltà.
I motivi per i quali le campagne di pressione falliscono nel loro intento non hanno nulla a che vedere con Facebook e Twitter, ma molto con i problemi legati all’organizzazione dei movimenti politici. Gli entusiasti di internet sostengono che la Rete ha reso l’organizzazione più semplice, ma ciò è vero in parte: per sfruttare i vantaggi dell’organizzazione online occorre un movimento strutturato e disciplinato, che abbia obiettivi definiti, gerarchie e procedure operative trasparenti (basti pensare alla campagna per la presidenza di Barack Obama). Se un movimento politico è disorganizzato, internet mette in luce i punti deboli e catalizza i conflitti interni.
Non necessariamente. Molti entusiasti del web, che in passato non si interessavano ai dibattiti politici, hanno iniziato a raccogliere la sfida di farsi controllori dei governi, trascorrendo notti e giorni a digitalizzare le informazioni e a caricarle nei database online. Dal britannico TheyWorkforYou (nella foto), al keniano Mzalendo, a vari progetti affiliati alla Sunlight Foundation con sede negli Stati Uniti, come MAPLight.org, un gran numero di siti web indipendenti hanno iniziato a monitorare le attività parlamentari, e alcuni offrono addirittura paragoni tra i voti dei parlamentari e le loro promesse fatte in campagna elettorale. Simili sforzi sono sfociati in una politica migliore o anche solo più onesta? Finora i risultati sono alquanto contrastanti. Anche i più idealistici fanatici stanno iniziando a comprendere che le barriere più insormontabili a una politica più aperta e partecipata sono le patologie croniche del mondo politico e istituzionale, e non le carenze tecnologiche. La tecnologia non consente di carpire necessariamente un maggior numero di informazioni dai regimi chiusi, ma permette a un numero maggiore di persone di avere accesso alle informazioni disponibili. I governi tuttora mantengono un enorme potere nel decidere che tipo di informazione rendere nota. Per ora, perfino l’amministrazione Obama, autoproclamatasi paladina del "governo aperto", si attira qualche critica da parte dei gruppi che tengono d’occhio la trasparenza dell’informazione per aver reso note le informazioni sui numeri dei cavalli e degli asini esistenti e aver tenuto invece sotto silenzio alcune informazioni più delicate riguardanti petrolio e gas. Ma anche nel caso in cui fossero rese note informazioni più dettagliate, non sempre queste portano necessariamente a politiche riformate, come ha sottolineano Lawrence Lessig nel suo incisivo articolo di fondo su New Republic dell’anno scorso. Per instaurare rapporti e connessioni significativi tra informazione, trasparenza e responsabilità sarà necessario qualcosa di più che limitarsi ad armeggiare con i fogli di calcolo elettronici. Sarà indispensabile dar vita a istituzioni sane e democratiche, sistemi di controllo e vigilanza efficienti. Internet potrà sicuramente dare una mano, ma soltanto fino a un certo punto. Troppo spesso, ancora adesso, a mancare è la volontà politica, e non un numero maggiore di informazioni.