Varie, 2 maggio 2010
APPUNTI SU MATTEO MESSINA DENARO
DAL CORRIERE DELLA SERA DEL 16/03/2010
Operazione Messina Denaro. Presi il fratello e i fedelissimi
L’immagine di un boss sempre più solo s’adatta ormai a Matteo Messina Denaro, il capomafia con cinquanta omicidi alle spalle, descritto come un gaudente play boy, da ieri latitante in crescente difficoltà. Perché, a sei mesi dalla prima, con una seconda operazione chiamata Golem, la polizia fra la roccaforte di Castelvetrano e altri paesi vicini a Trapani gli ha sottratto 19 fiancheggiatori fra postini dei pizzini ed esattori, a cominciare dal fratello Salvatore.
Un colpo duro per il capomafia indicato come il numero uno di Cosa Nostra in Sicilia occidentale.
Perché ormai si fida solo dei parenti stretti. Ed è un guaio trovarsi in cella il fratello subentrato nella guida della «famiglia» al cognato del latitante, Filippo Guttadauro, catturato nel 2006.
Una batosta che s’abbatte su un altro cognato, Enzo Panicola, al centro di una pagina oscura destinata a far lievitare veleni e sospetti su quello che fu il Sisde, quando tante operazioni del Servizio segreto civile erano guidate da Mario Mori e condotte da Giuseppe De Donno, i due ufficiali dei carabinieri già sotto processo a Palermo per il presunto favoreggiamento di Provenzano.
Alcune intercettazioni inserite nel provvedimento eseguito ieri all’alba ribadiscono infatti l’esistenza di rapporti proprio fra De Donno e l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, un personaggio con un piede nella mafia e un altro nei servizi come confidente.
Indicazioni esplicite su incontri con Panicola. Rapporti attivi dal 2003, ma scoperti dalla Mobile di Giuseppe Linares solo dopo l’arresto di Provenzano, nell’aprile 2006. E infine confermati dal vertice Sisde. Ma senza spiegare perché le informazioni su Vaccarino e su Panicola in contatto continuo con Matteo Messina Denaro non venivano passate né ai colleghi impegnati nelle ricerche né alla magistratura.
I dettagli di quest’ultima inchiesta, eseguita dopo un’autorizzazione ottenuta dalla Presidenza del Consiglio per utilizzare intercettazioni e informazioni sugli 007, potrebbero diventare ghiotta materia per Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, i pm del processo in corso a Palermo contro gli ufficiali che respingono ogni accusa sostenendo piuttosto di aver puntato senza successo alla cattura della primula trapanese.
Braccato come una volpe, Messina Denaro assiste impotente al tracollo con soddisfazione del questore Giuseppe Gualtieri e del ministro Maroni, fiducioso: «Si avvicina il momento in cui riusciremo a catturarlo».
Un’operazione che coinvolge insospettabili e imprenditori, commercialisti e malacarne fino al decano della mafia locale, Antonio Marotta, inossidabile a 83 anni, come nelle vecchie foto in cui viene ritratto accanto al bandito Salvatore Giuliano, il protagonista della strage di Portella della Ginestra.
Ogni figura ha una sua storia. A cominciare dal Panicola che ha sposato Patrizia Messina Denaro.
Incrocio di famiglie con cognomi pesanti. Perché il padre di Panicola, un ex consigliere provinciale, è dentro per avere ucciso un figlio, Giuseppe, un errore durante un agguato di mafia contro un ex carabiniere confidente di un clan avverso.
Negli scatti e nei filmati realizzati nei due anni di indagini risulta un po’ impacciato il fratello del gran capo, Salvatore Messina Denaro, che nei panni da «reggente», per sfuggire alle intercettazioni, tramava con gli uomini d’onore passeggiando in riva al mare vestito di tutto punto tra i bagnati nonistante il caldo, ovvero muovendosi furtivo sotto un monumento in una giornata piovosa. In manette anche due primi cugini di Matteo il fuggitivo e sotto pressione 40 suoi referenti con case e uffici perquisiti in diverse città anche al nord.
Come è accaduto a Busto Arsizio per un quotato commercialista, un terzo cognato, fratello di Franca Alagna, la moglie che a Castelvetrano ha partorito una bimba durante la latitanza del boss. La figlia che lo stragista di Cosa Nostra non ha mai visto.
Felice Cavallaro
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Terra bruciata attorno al boss Messina Denaro
L’ultimo segnale l’aveva lanciato con spavalderia il 30 novembre scorso, col solito necrologio pubblicato sul «Giornale di Sicilia»: era l’undicesimo anniversario della morte del padre, Francesco Messina Denaro e lui, Matteo, il superlatitante ritenuto a capo di Cosa Nostra, dal suo rifugio segreto, attraverso i familiari aveva fatto pubblicare il rituale annuncio a pagamento, che è un segnale di affetto per il caro estinto ma anche di presenza e potenza, dato all’intero popolo di Cosa Nostra.
Dopo i 19 fermi di ieri, per il prossimo necrologio Matteo, 48 anni il prossimo 26 aprile, latitante da 17, avrà qualche difficoltà in più. Gli hanno arrestato in un colpo solo il fratello, due cugini e un cognato, più un gruppo di persone che avrebbe tenuto i contatti tra «Lu Siccu» (il magro) e il resto dell’organizzazione. Postini, fiancheggiatori, l’ «acqua» dentro cui il pesce latitante si muove. Il Servizio centrale operativo della polizia e le Squadre mobili di Palermo e Trapani, con l’operazione Golem 2 hanno dato un altro colpo, il secondo nel giro di nove mesi, alla struttura che cura la latitanza dell’uomo che è considerato al vertice dell’intera organizzazione. A coordinare i due blitz, i pm Teresa Principato, Paolo Guido e Marzia Sabella. Ieri il personaggio più importante a cadere nella rete è stato Salvatore Messina Denaro, 57 anni, fratello di Matteo, ex bancario. Poi ci sono i cugini del boss: Giovanni e Matteo Filardo, di 47 e 42 anni, e il cognato, Vincenzo Panicola, di 40 anni. Arrestato anche il fratello di un ex della banda Giuliano, Antonino Marotta, pure lui legato ai banditi che terrorizzarono la Sicilia negli anni ’50.
Perquisizioni sono state effettuate a Busto Arsizio anche al fratello della compagna di Matteo: la donna che, durante la latitanza, ha reso il superboss padre. Sequestrate anche quote di un’industria dolciaria, la Ari Group Srl, e l’officina di Leonardo Ippolito, un altro dei fermati. Lì si tenevano i summit e gli scambi dei pizzini contenenti gli ordini del latitante. Mesi di intercettazioni, telefoniche e ambientali, di riprese audio e video, hanno documentato la grande scaltrezza degli uomini legati all’inafferrabile boss, pronti a parlare vestiti di tutto punto, in piena estate, in riva al mare per non farsi ascoltare, abili nello scambiarsi biglietti e lettere provenienti da Messina Denaro e a farne sparire le tracce. Denaro era ossessionato dalla necessità di comunicare a scadenze fisse, febbraio, giugno e ottobre, per mantenere gli automatismi ed evitare le comunicazioni telefoniche: se l’era presa addirittura con Bernardo Provenzano, quando con leggerezza aveva conservato i suoi biglietti, ritrovati al momento della cattura del superlatitante corleonese, nel 2006.
Firmando sempre con lo pseudonimo di «Alessio», si era sfogato per questo con il suo «contatto», il professore Tonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, collaboratore del Sisde, chiamato convenzionalmente Svetonio dal latitante.
Inafferrabile, senza volto, Messina Denaro è sul suo territorio e detta legge, ma non sconfina a Palermo. Riconosce solo l’autorità di Totò Riina e quando i mafiosi palermitani, nel novembre 2008, volevano ricostituire la commissione mafiosa per fare anche «cose gravi», attentati e omicidi eccellenti, lui si dissociò apertamente: «Noi non conosciamo a nessuno». In quel «noi» c’era tutto e niente. E la commissione mafiosa non fu ricostituita.
Riccardo Arena
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DALLA STAMPA 16/03/2010
I precedenti
Totò Riina. Il Padrino della mafia è stato arrestato il 15 gennaio del 1993 dai carabinieri del Ros del «Capitano Ultimo» davanti alla sua villa. Totò Riina era latitante del 1969.
Bernardo Provenzano. Il boss dei boss è stato arrestato l’11 aprile del 2006. Provenzano era ricercato dal 9 maggio 1963, con una latitanza record di 43 anni. Era stato condannato in contumacia a tre ergastoli.
Salvatore Lo Piccolo. Il boss di Palermo è stato catturato il 5 novembre 2007, dopo una latitanza di 25 anni. Con lui sono stati arrestati il figlio Sandro, Gaspare Pulizzi e Andrea Adamo.
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DALLA STAMPA DEL 16/03/2010
’Svetonio", lo 007 che scriveva al boss
Come ogni agente segreto che si rispetti, aveva il suo nome in codice che - ironia della sorte - gli era stato imposto dalla sua stessa preda. Era stato Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa nostra «attenzionato» dall’insospettabile spia, a chiamarlo «Svetonio».
Proprio come l’autore del «De viris illustribus». Per sé, invece, aveva scelto lo pseudonimo di Alessio. E così per due anni Svetonio e il superlatitante Alessio si sono scambiati una alata quanto clandestina corrispondenza puntualmente finita sulle scrivanie degli analisti del Sisde, che ne traevano spunti per la possibile cattura di Matteo Messina Denaro.
Oggi il prezioso e molto interessante, dal punto di vista antropologico oltre che investigativo, carteggio si può trovare nel fascicolo che ieri ha dato luogo all’operazione «Golem II», nel Trapanese. Protagonista della Spy Story alla siciliana è Antonino Vaccarino, strano personaggio nato a Corleone nel 1945 ma da tempo residente a Castelvetrano dove ha fatto l’insegnante di lettere ed è stato consigliere comunale, assessore ed anche sindaco.
Certo l’ambiente non è dei più adatti a mantenere intatta la passione per i libri, tra l’altro condivisa con la moglie, Gisella, professoressa di filosofia. Castelvetrano, come d’altra parte Corleone, è da sempre una specie di brodo di coltura della mafia. Il cortile di via Mannone dell’avvocato Gregorio De Maria, dove, il 5 luglio del 1950, fu inscenato il falso conflitto a fuoco che si concluse con la morte sospetta di Salvatore Giuliano, nel tempo è diventato l’icona dell’ambiguità delle vicende di mafia. Ecco, forse il professor Vaccarino ha risentito di un certo condizionamento ambientale, se è vero che qualche problemino giudiziario se l’è procurato. Finito sotto osservazione anche per la sua passione esoterica (Loggia Francesco Ferrer), si fece notare anche per la carica pubblica all’interno della cooperativa «Agricola Mediterranea». Nulla, per usare un termine attuale, di penalmente rilevante. Solo la vicinanza di personaggi del calibro di Francesco Messina Denaro, padre (ora scomparso) di Matteo e Salvatore e del boss Filippo Guttadauro. Comunque il peggio doveva arrivare nel 1997, quando fu condannato a 6 anni e mezzo per traffico di stupefacenti. In quell’ occasione fu anche prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa.
Una volta tornato in libertà, lo troviamo a gestire il cinema Marconi, l’unico di Castelvetrano e a cercare l’avventura spionistica. Così è diventato Svetonio, dopo aver agganciato Matteo attraverso il fratello Salvatore Messina Denaro, suo ex alunno al liceo. «Tutte le persone - gli spiega Alessio - che hanno contatto con me hanno dei nomi convenzionali, il suo è Svetonio». Le raccomandazioni, poi, riguardano le precauzioni da osservare nello scambio epistolare: rispettare maniacalmente le date che vengono comunicate per rispondere e, soprattutto, bruciare i «pizzini». Quest’ultima osservanza è stata disattesa, visto che il Sisde, nel 2007, ha trasferito alla magistratura l’intero carteggio.
E’diabolica la «captatio benevolentiae», per restare nel latino, adoperata da Svetonio per conquistare con l’adulazione le simpatie del latitante. Gli scrive parole poetiche sul padre morto: il «tuo eccezionale genitore» «ritengo abbia fatto della sua vita l’esaltazione dell’equilibrio». Poi lo blandisce coi discorsi sui «politici indegni» e arriva a spingere Alessio a sbilanciarsi parecchio, come quando il boss definisce «venditore di fumo» il presidente del Consiglio dell’epoca (era Berlusconi). Il doppio gioco di Svetonio oggi è chiaro: ad Alessio fa credere di potergli essere utile politicamente, al Sisde promette l’improbabile cattura del latitante. Tra i due, si intuisce, crede di più in Alessio che percepisce come più forte dello Stato.
Tutto questo ed altro è ormai codificato, anche se Svetonio non è neppure indagato nell’indagine Golem perché agiva «per ragion di Stato». Ma i suoi guai, forse, non sono finiti. Il 15 novembre del 2007 ha ricevuto una lettera vera, non un «pizzino». C’era scritto: «.....Ha buttato la sua famiglia in un inferno... la sua illustre persona fa già parte del mio testamento... in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti...». Firmato: M. Messina Denaro, proprio lui in persona, non più Alessio.
Francesco La Licata
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DAL MESSAGGERO DEL 16/03/2010
Si stringe il cerchio su Messina Denaro. Manette al fratello e altri 18 fedelissimi
Polizia e magistrati stanno prosciugando la ”risaia” di Castelvetrano e dintorni. A deflusso completato affiorerà la sorgente che l’alimenta, ”la testa dell’acqua”, come dicono i contadini. Per i mafiosi, invece, ”la testa dell’acqua” - con ciò intendendo la fonte del potere - è Matteo Messina Denaro, 47 anni, latitante da 17. Una ”fonte” che da ieri è tanto più sguarnita, poco difesa: 19 persone, tutte in misura diversa legate al boss da vincoli di parentela ed impegnate a proteggerlo ed a servirlo - ricevendo e smistando ordini, riciclando denaro -, sono state poste fuori gioco da polizia e magistratura. L’accusa contestata ai 19 è di associazione mafiosa, estorsione, danneggiamenti e trasferimento fraudolento di società e valori.
«Si è fatta terra bruciata, é stata smantellata la rete postale del latitante più pericoloso - ha commentato il Ministro dell’Interno Roberto Maroni - sono ottimista, al più presto sapremo catturare anche lui». Le indagini della polizia di Trapani e del Servizio Centrale operativo sono state coordinate dal Procuratore di Palermo Francesco Messineo, dall’aggiunto Teresa Principato e dai sostituti Marzia Sabella e Paolo Guido. Tra gli arrestati anche Salvatore, fratello del boss, e Antonino Marotta, 83 anni, decano delle cosche locali, 60 anni fa gregario di Salvatore (’Turiddu”) Giuliano. Altri Marotta ebbero un ruolo chiave nell’organizzazione dell’assassinio a freddo - 5 luglio 1950, a Castelvetrano - del bandito. Tra i presunti fiancheggiatori del superlatitante ci sono poi altri personaggi ”storici” delle cosche trapanesi, tornati, dopo il carcere, a dare il loro contributo a Cosa Nostra. E’ il caso di Filippo Sammartano, Antonino Bonafede e Piero Centonze. Le intercettazioni ambientali e telefoniche, su cui l’indagine poggia - è stata anche infiltrata un’officina di Castelvetrano, dove giungevano e si smistavano i ”pizzini” oppure si bruciavano dopo la lettura -, hanno documentato i sistemi di controllo del territorio, il ricorso sistematico alla violenza e l’ industria delle estorsioni. All’impresa di Luigi Spallina era stata chiesta, ad esempio, una tangente di 100mila euro su un appalto pubblico. La cassa della cosca provvedeva inoltre a stipendiare le famiglie dei mafiosi detenuti. In parallelo con gli arresti sono stati recuperati ”pizzini” attribuiti a Messina Denaro - dai quali ci si attendono a breve nuove piste di indagini -, sequestrati documenti in 40 tra abitazioni, società, studi professionali di Trapani, Palermo, Caltanissetta, Torino, Como, Milano, Imperia, Lucca e Siena. Inoltre sono state sequestrate aziende di ristorazione e distribuzione alimentare, che l’accusa ritiene riconducibili a Messina Denaro. Sequestri, questi, che si aggiungono a quelli subiti dalla cosca a fine gennaio scorso quando la Dda colpì un patrimonio valutato 550 milioni di euro.
Lucio Galluzzo
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DALLA REPUBBLICA DEL 16/03/2010
Pizzini bruciati e cellulari spenti tutte le manie del re dei latitanti
Il ritrovamento dell´archivio dei "pizzini" nel covo di Bernardo Provenzano lo aveva lasciato senza parole tanto da lasciarsi andare al di sopra delle righe nei confronti del capo assoluto di Cosa nostra. «Sono imbestialito anche se mantengo la calma perché l´ira non porta a niente - scriveva Matteo Messina Denaro all´ex sindaco di Castelvetrano Nino Vaccarino a giugno 2006 - Non ci voleva tutto ciò, è una cosa assurda dovuta al menefreghismo di certe persone che tra l´altro non si potevano e dovevano permettere di comportarsi in siffatto modo».
Errore da non ripetere, quello di consegnare nelle mani dello Stato le conversazioni tra i capi di Cosa nostra e soprattutto quello di farsi "beccare" per un anello debole nella catena di comunicazione. Ed ecco che, visto che ai "pizzini" non si può rinunciare, il superlatitante trapanese - noto per le sue manie - il "Primo assoluto" come si fa chiamare, ha imposto regole ferree per lo smistamento della sua posta e del denaro che cammina insieme a lei, possibilmente in banconote da 500 euro, arrotolate come i "pizzini" e chiuse con lo scotch.
Gli investigatori della squadra mobile di Trapani diretta da Giuseppe Linares e dello Sco hanno ricostruito come funzionano le comunicazioni che il boss ha affidato ad una ristrettissima cerchia di fedelissimi, in buona parte della sua famiglia di sangue, a cominciare dal fratello Salvatore, arrestato nel blitz della notte scorsa, che dei "pizzini" era il collettore. "Pizzini" che - questo l´ultimo ordine - vanno sempre bruciati, e non semplicemente distrutti, subito dopo averli letti. Divieto assoluto di lasciare traccia dei biglietti e dei loro movimenti, con alcuni efficaci escamotage. Innanzitutto c´è "l´amanuense" perché Messina Denaro, ormai da anni, non scrive più di suo pugno le lettere per evitare di essere eventualmente inchiodato da una perizia calligrafica. I messaggi li detta ad un fedelissimo scrivano, sempre lo stesso. Poi c´è il "tramite", uno, due al massimo, incaricati di andare a consegnare e a ritirare la posta dai destinatari senza preavviso e poi recapitarla al boss con una fondamentale accortezza: spegnere i telefoni cellulari e togliere la batteria due giorni prima e due giorni dopo la consegna in modo da non consentire l´identificazione del luogo della consegna attraverso le "celle" dei ripetitori telefonici. Ridotti al massimo anche i momenti di rischio, e dunque postini all´opera solo tre volte all´anno ed in periodi fissi, fine gennaio-primi di febbraio, fine maggio-primi di giugno e fine settembre-primi di ottobre, con consegna garantita in due-quattro settimane al massimo.
L´ultimo ritratto del boss che ci regalano le conversazioni dei suoi fedelissimi intercettate dalla polizia è dunque quella di un uomo sempre più attento e meticoloso, che ha bisogno di molti soldi in contanti per gestire la sua latitanza («Quello deve dare e deve dare assai, se no se lo vendono») ma che non deve essere molto lontano da casa sua visto che i suoi uomini gli hanno allestito una villetta «con tutti i comfort che lui vuole», alla foce del fiume Belice, «per un eventuale trasferimento notturno». Fuma Merit, «come un negro» e non sembra più fare molto affidamento sui rapporti con la politica. In una delle sue lettere più recenti ritrovate scrive: «Sappiamo come sono i politici che non fanno niente per niente e noi non abbiamo più alcuna forza di contrattualità».
Alessandra Ziniti
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UN RITRATTO DAL CORRIERE DELLA SERA DEL 16/03/2010
L’imperatore invisibile che comanda anche a Palermo
I magistrati antimafia mostrano pochi dubbi sul ruolo assunto dall’ultimo Grande Latitante che anche stavolta non è stato catturato, sebbene costretto a vedere intorno a sé un vuoto sempre più ampio.
«Matteo Messina Denaro – scrivono i pubblici ministeri nel provvedimento d’arresto dei suoi presunti favoreggiatori ”, pur non potendo formalmente rivestire cariche verticistiche nella consorteria palermitana a lui estranea, si poneva e si pone come l’unica figura carismatica a tutt’oggi capace di imprimere le linee strategiche dell’intera Cosa nostra, e il cui orientamento (peraltro espressione di una storica militanza nell’associazione mafiosa e nelle alleanze illo tempore costituite e consolidate con i capi corleonesi) finisce per assumere un carattere imperativo».
Il boss di Castelvetrano, provincia di Trapani, non ha ancora cinquant’anni, è tra i responsabili delle stragi del 1993 e di decine di omicidi, ha il carisma di pochi altri capimafia che hanno guidato l’organizzazione ma poi sono caduti in trappola. E sarebbe diventato una sorta di imperatore invisibile di Cosa nostra. Uno tra i «fedelissimi» arrestati ieri, in una conversazione intercettata nell’agosto 2008 parlava così di Matteo Messina Denaro: «Io sono convinto di una cosa... a iddru la spirtizza non gli manca», a lui non gli mancano furbizia ed esperienza, «e se lo prendono è perché c’è qualcuno che se lo vende! Te lo dico...».
talmente sperto, il latitante di Castelvetrano chiamato anche «Trapani» o «il trapanese» nelle conversazioni fra gli altri boss, che non s’intromette nelle beghe interne alla mafia palermitana. Almeno apparentemente. Ne resta fuori ma, al tempo stesso, la condiziona. Com’è avvenuto meno di due anni fa, quando i boss di Palermo volevano rimettere in funzione l’antica commissione provinciale di Cosa nostra, messa da parte con la «monarchia» instaurata da Totò Riina e poi decapitata con l’arresto del capo corleonese. Restava Provenzano, certo, che però non dava ordini ma «consigli», come scriveva lui stesso nei suoi pizzini; e soprattutto tentava di evitare fratture cercando sempre composizioni.
Durante le «consultazioni» per rifondare l’organismo che avrebbe dovuto ridare un governo collettivo a Cosa nostra, il capo del mandamento mafioso di Bagheria Giuseppe Scaduto disse che serviva anche l’assenso di Messina Denaro, e lui si metteva a disposizione: «Sono in contatto con lui... se avete bisogno di un contatto con Matteo...». Gli risposero Salvatore e Giovanni Adelfio (padre e figlio ispiratori del progetto per conto del boss di Villagrazia-Santa Maria del Gesù, Benedetto Capizzi): «No, no... da là parte... da là è partito...»; come a dire che non serviva l’assenso, perché l’idea della rifondazione mafiosa proveniva proprio da lui.
Sei mesi dopo lo stesso Scaduto affrontava la questione con altri capimafia e riferiva degli incontri avuti con i dissidenti, contrari all’operazione. I quali’ raccontò in un colloquio intercettato – gli avevano spiegato che Messina Denaro, cioè «Trapani», non era affatto d’accordo con la nuova commissione: «Mi escono biglietti che gli sono arrivati da Trapani... ho conosciuto la calligrafia dei pizzini che arrivano a me, la stessa, e ci dice "noi non conosciamo a nessuno, per come siamo stati... dice che siamo in rapporti con tutti... di chi ha bisogno siamo a disposizione... per altre cose non conosciamo a nessuno"... Nel biglietto c’era pure messo questo: "Noi non ci possiamo immischiare nei discorsi... noi siamo amici, non cambia niente... non riconosciamo questi discorsi...».
La conseguenza fu che i dissidenti si fecero forti della contrarietà di Messina Denaro, e anche gli indecisi dissero no. Lasciando aperta una sola possibilità: «Salvo che spunta quello che deve spuntare, e lo manda a dire, e il discorso cambia». Si riferivano a Riina, che benché in carcere manteneva la posizione di capo supremo: «Responsabilità non ne possiamo prendere nessuno salvo che c’è uno... una persona di là dentro che conosciamo tutti e manda a dire: rivolgetevi a questo». la posizione che il Grande Latitante era riuscito a imporre, senza «immischiarsi» e senza tradire la fedeltà a Totò Riina. Riconoscendolo come l’unico capo in grado di cambiare le regole dentro Cosa Nostra, mentre lui’ da imperatore invisibile – continua a muovere le sue pedine e gestire i suoi affari.
Giovanni Bianconi
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IL MAXI BLITZ TRA PALERMO E GLI USA - due articoli (non so se le possono servire)
LA STAMPA DI GIOVEDI’ 11/03/2010
Nuovi padrini, vecchia mafia. Spezzato l’asse Sicilia-States
«Palermo è un cimitero», diceva al telefono Giuseppe Moscarello, proprietario di due ristoranti del capoluogo siciliano, Il Gattopardo e Lo Strascino. «Bisogna vedere di riprendere questa cazzo di città - rispondeva da Miami l’imprenditore Roberto Settineri - perché è una cosa schifosa». I sistemi per «riprendere Palermo» le cosche italoamericane li avevano studiati, fra mille traffici e attività realizzate da palermitani oltreoceano. Dove si reinvestiva e si ripuliva il denaro sporco.
Con ramificazioni che portano fino a traffici di droga e a rapporti con i colombiani. Sono ventisette, le persone fermate dai pm italiani Ignazio De Francisci, Roberta Buzzolani e Francesca Mazzocco e dai poliziotti federali statunitensi, sull’asse Palermo-New York-Miami, dal Servizio centrale operativo e dalla Squadra mobile della questura di Palermo, coordinata da Alessandro Marangoni, in collaborazione con il Fbi. Esponenti delle cosche mafiose di Santa Maria di Gesù e Pagliarelli con uomini dei clan italoamericani di New York, personaggi vicini ai Gambino e ai Colombo uniti a Giampaolo e Gioacchino Corso da un mediatore che viveva a Miami e due volte all’anno tornava in Sicilia: Roberto Settineri, 42 anni a luglio, impegnato nella distribuzione in Florida e nell’area caraibica di vini italiani e anche titolare di un bar, il «Sopranos Cafè» a Miami Beach. Un nome, Soprano, che richiama la serie tv. Settineri, secondo gli inquirenti, aveva preso il posto di un altro personaggio di rilievo dell’organizzazione, Frank Calì, arrestato nel febbraio 2008 nell’operazione Old Bridge, altro filone che aveva portato alla luce i rapporti (il «vecchio ponte») tra le Sicilia e Usa. Stavolta l’operazione si chiama, molto più prosaicamente, «Paesan Blues», con riferimento ai «Paisà».
Oltre a Settineri, al centro di tutto c’è una mafia palermitana tornata ad essere aggressiva e violenta, e che non disdegna le lezioni «a base di colpi di legno» da infliggere a coloro che non pagano il pizzo o che non accettano il potere assoluto dei boss. E il pensiero non può che correre alla triste sorte dell’avvocato Enzo Fragalà, ucciso proprio a colpi di bastone, nei giorni scorsi.
Ino Corso era il personaggio che nel 1997 portava il carmelitano scalzo Mario Frittitta da un boss latitante e bisognoso di assistenza per lo spirito, Pietro Aglieri. Fu condannato è uscito dal carcere nel 2006 e ha ripreso più di prima. Con altre vecchie conoscenze come Giuseppe Lo Bocchiaro, uno che pestava la gente per strada, per riaffermare il controllo sul territorio. E poi faceva esigere cento euro in più di pizzo, per organizzare la festa religiosa del rione col palco sotto casa sua. Al telefono, Roberto Settineri parlava di un summit: «Bisogna ritagliarsi nella vita una storia, senza storia una persona non è nessuno…». Ieri la storia ha preso un’altra piega.
Riccardo Arena
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LA REPUBBLICA DI GIOVEDì 11/03/2010
In trappola i nuovi padrini della mafia
«Un uomo senza storia non è nessuno e se venissi qui vedresti un pezzo di storia». Parlano così i nuovi mafiosi siciliani, quarantenni rampanti che si fanno forti dei vecchi legami con i padrini d´oltreoceano per riconquistare il vertice di Cosa nostra squassato dai continui arresti. Per mesi, la polizia e l´Fbi hanno intercettato fra la Sicilia, New York e Miami, i boss che hanno già segnato una svolta nell´organizzazione mafiosa siciliana: chiusa l´era di Riina e Provenzano, nei posti chiave di Cosa nostra sarebbero tornati vecchi cognomi legati allo schieramento dei "perdenti" della guerra di mafia di inizio anni Ottanta.
La Procura del capoluogo siciliano ha fatto scattare un blitz nella nuova roccaforte dei boss, il mandamento di Santa Maria di Gesù, un tempo il regno di Stefano Bontade, ucciso dai corleonesi nel 1981. Da Santa Maria i padrini erano tornati a gestire potere: 21 persone sono state fermate a Palermo, su ordine dei pm Roberta Buzzolani, Francesca Mazzocco e del procuratore aggiunto Ignazio De Francisci. Il blitz è scattato in contemporanea a New York e Miami, dove sono stati arrestati cinque boss dei clan Gambino e Colombo (Gaetano, Tommaso e Gaetano junior Napoli; Antonio Tricamo e Daniel Dromerhauser), ma soprattutto l´ambasciatore delle cosche palermitane. Si chiama Roberto Settineri, ha 42 anni: fino a qualche anno fa era un gran frequentatore dei salotti bene di Palermo, poi si era trasferito oltreoceano, ufficialmente per la sua attività di rappresentante di vini italiani. Secondo gli investigatori della sezione Criminalità organizzata della Mobile palermitana e dello Sco era un vero e proprio broker della nuova mafia: ai boss siciliani che spesso l´andavano a trovare a Miami proponeva investimenti immobiliari e nel settore della grande distribuzione. Così sarebbero stati riciclati i proventi del traffico di droga e soprattutto delle estorsioni, che gli ultimi signori di Santa Maria di Gesù (i fratelli Gioacchino e Gianpaolo Corso) erano tornati a imporre a tappeto. C´erano in ballo davvero tanti soldi: la conferma è arrivata dal ritrovamento durante il blitz del libro mastro del pizzo, con i nomi di tanti commercianti.
Settineri era un vulcano di progetti. A Miami aveva aperto un caffè col nome dei mafiosi televisivi più celebri d´America, i Soprano. I discorsi d´affari importanti non li faceva però nel suo locale, né al telefono, ma attraverso Skype, un sistema di comunicazione via Internet che non è possibile intercettare. Quando poteva, il broker dei boss tornava nella sua Palermo. Per parlare faccia a faccia con i principali datori di lavoro che aveva in agenda. Dice il capo della polizia, Antonio Manganelli: «Questa operazione conferma la vitalità della mafia, ma ha mostrato la forza e la determinazione dello Stato, che è riuscito ancora una volta a sferrarle un durissimo colpo». L´ex presidente della commissione antimafia, Giuseppe Lumia, lancia un appello alla politica: «Cosa nostra resta forte. Bisogna adottare provvedimenti concreti per dare più strumenti d´indagine».
SALVO PALAZZOLO E ALESSANDRA ZINITI