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 2010  aprile 30 Venerdì calendario

QUANDO IL PESO (POLITICO) SI MISURA IN METRI QUADRI


Attico e superattico, luminosissimo e terrazzatissimo, zona Fontana di Trevi, equo canone, ma almeno Ciriaco De Mita teorizzava il diritto al privilegio per le classi dirigenti. Era l’88 e le cronache si adeguavano: un po’ divertite e appena appena scandalizzate. Il capo democristiano si era preso quattrocento metri (più cinquecento di terrazza) e si giocava a indovinare la data dell’inaugurazione, e che cosa avrebbe indossato la figlia Antonia, tutto lì. Saltò fuori che la casta aveva lottizzato il patrimonio immobiliare: ai comunisti i palazzi Inps, ai democristiani i palazzi Inpdai, e il trilocale all’amante e il bilocale al figliolo. Siccome forse il potere logora, ma il podere no, non c’era capocorrente che fosse stato privato della vantaggiosa locazione in centro storico: Nilde Jotti, Giuliano Amato, Giorgio La Malfa, il giovane Rutelli eccetera eccetera. Paolo Cirino Pomicino, in anni di Prima Repubblica, accolse i fotografi a casa, sempre attico e superattico, sempre luminosissimo e terrazzatissimo, kitch e sbalorditivo, stavolta affacciato su Posillipo e di proprietà, per offrire alla vista degli elettori un commensurabile esempio delle sue vette di gloria.
Dunque, siccome il peso di un uomo si calcola in metri quadrati e accatastamento, e da prima della domus aurea, l’immediata preoccupazione del leader è procurarsi un domicilio all’altezza, in ogni modo: in ossequio alle regole o con la truffa. Sulle modalità d’acquisto del ministro Claudio Scajola - appartamento con vista sul Colosseo - si stabilirà. Ma come dimenticare che il medesimo Scajola, nel 2007, in denuncia dei redditi aveva elencato undici immobili di proprietà? Il rischio, poi, è di essere impiccati alla medesima causa per cui si era ammirati: la reggia. Trasecolava, Claudio Martelli, quando da un giorno con l’altro la villa sull’Appia antica era diventata da simbolo di grandeur a simbolo di taccheggio. Era il terribile 1993, ma le cose non sembrano cambiare.
Gira e rigira salta fuori uno scandalo, e gira e rigira si va a parare sul domicilio. Affittopoli, anno 1996, fu la madre di tutte le spiate. Ci rimediarono la figuraccia soprattutto i giovanotti emergenti della sinistra post Mani pulite, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, il primo alloggiato a Trastevere, il secondo a piazza Fiume, e anche lì, come nel caso De Mita, a equo canone da enti pubblici. Ma, appunto, mentre De Mita credeva nella rettitudine della franchigia, gli statisti della moralizzazione non potevano permettersi una macchia così disonorevole: D’Alema traslocò, Veltroni chiese un adeguamento della pigione. I giornali si esercitavano su un nuovo tema: Affittopoli è di destra o di sinistra? La contabilità diceva che quelli di sinistra presi col quartierino semiregalato erano quindici contro nove di destra. E quelli di destra non battevano ciglio: «Il nostro elettorato capisce», disse Clemente Mastella a sua giustificazione. E insomma, quelli di sinistra erano di più ma quelli di destra erano senza vergogna, e ognuno ne trasse considerazioni filosofiche: quanto era attuale la lezione di Norberto Bobbio sul (tradito) egualitarismo di sinistra e il (praticato) inegualitarismo di destra?
Poi sono trascorsi gli anni e Affittopoli trasfigurò in Svendopoli: le medesima residenze, occupate ad affitti di favore, a prezzi di favore erano state vendute. E agli stessi illustri inquilini. Di nuovo si rosicò a vedere sui giornali - nel frattempo approdati a una minuziosa stampa a colori - le foto degli attici e superattici, luminosissimi e terrazzatissimi, dei vari Franco Marini e Pierferdinando Casini, in una mutualità della protervia che intanto aveva abbattuto i muri dell’arco costituzionale: ebbe un tetto anche Gianni Alemanno. Tanto per intenderci sull’investimento: Nicola Mancino aveva acquistato al prezzo di un miliardo e 550 milioni di lire (circa 800 mila euro) dieci vani più soffitta autonoma in Corso Rinascimento, la via del Senato. Mastella, col solito spirito pragmatico, rastrellò sei appartamenti destinati a figli, sedi di partito e redazioni di giornale.
C’è niente da fare: se si infilano le mani nei traffici immobiliari, non se ne esce più: dall’abuso edilizio di Vincenzo Visco a Pantelleria, alle immaginifiche e lucrose trattative di Silvio Berlusconi per ognuna delle sue sparse ville, alle mirabolanti avventure di Antonio Di Pietro fra masserie e garconniere (a adesso, se non s’è perso il conto, siamo a un totale di nove possedimenti, come Fausto Bertinotti), le questioni di dimora pareggiano belli e brutti, buoni e cattivi. E sarebbe forse giusto, in periodo di riabilitazioni, applicarsi al caso del socialista Gianni De Michelis il quale, negli swinging Ottanta, abitava in una stanza dell’Hotel Plaza, in via del Corso, a sei milioni di lire al mese. Visto oggi, un atto di sobrietà.