Giuseppe Pennisi, Avvenire 30/04/2010, 30 aprile 2010
MEDIA NON PROFIT
Uno dei Premi Pulitzer per il giornalismo è stato vinto poche settimane fa da un quotidiano fruibile unicamente sul web (www.propubblica.org), grazie a un’inchiesta sulle decisioni di vita e di morte che si dovettero prendere in un ospedale pieno di feriti gravi e isolato per la catastrofe subito dopo l’uragano Katrina a New Orleans.
ProPublica è una testata sostenuta dalla filantropia di magnati e di gente comune, la quale conduce inchieste giornalistiche di alta qualità e le offre gratuitamente a tutte gli altri media interessati a rilanciarle. Il suo direttore è un ex numero uno del Wall Street Journal.
Per capire come siano cambiate rapidamente le cose nell’informazione statunitense, basta tornare con la mente a dieci anni fa, in un’isoletta non lontana da Manhattan, dove veniva celebrata con una festa super-esclusiva (ma con mille fortunati invitati) la nascita di quello che avrebbe dovuto essere il periodico del secolo, The Talk, frutto dell’iniziativa congiunta di due giganti dei media: la Hearst Corp. e Miramax. Lo avrebbe diretto Tina Brown, reduce dai trionfi di tiratura e di pubblicità con The New Yorker e Vanity Fair . Fu un party memorabile, affermano coloro che erano presenti. Madison Avenue esultava. Un po’ come le ultime feste a Versailles, tanto più lussuose quanto più nelle strade di Parigi si accendevano i moti rivoluzionari.
Allora – nell’estate del 1999 – sembrava che la carta stampata fosse il motore della pubblicità e una macchina per macinare utili. Oggi invece numerosi quotidiani e periodici americani hanno dovuto alzare bandiera bianca e chiudere i battenti: nel corso degli ultimi dieci anni, negli Stati Uniti, l’occupazione nella stampa su carta è passata da 415.000 a 300.000 persone; sempre negli Usa, i proventi pubblicitari hanno subito una contrazione del 16% solo tra il 2008 e il 2009, quando hanno toccato i 38 miliardi di dollari e, secondo le stime più recenti, scenderanno a 28 miliardi di dollari entro il 2013.
Nel contempo, tra il 1999 e il 2009 gli utili dell’informazione via Internet sono passati dal 4% al 22% del totale dei ricavi delle industrie ’creative’ americane (quelli dei giornali sono scesi dal 40% ad appena il 14% del totale del settore. In molti Paesi europei (unica eccezione la Germania), la situazione non è migliore. In Francia, ad esempio, 2.900 giornalisti hanno perso il posto nel 2009, lo stesso quotidiano sportivo L’équipe,
un tempo inossidabile, ha chiuso in passivo e la stampa ’nazionale’ con base a Parigi fa acqua (nonostante i considerevoli aiuti pubblici), mentre regge abbastanza bene quella locale fortemente radicata sul territorio e con molte pagi- ne di pubblicità ovviamente in gran parte locale.
Non è solamente un problema settoriale oppure, come scrivono molti commentatori in questi giorni, principalmente di ’media mix’, ossia di trovare l’equilibrio appropriato tra informazione (ed analisi) su carta stampata, su televisione e su web da un lato e regolamentazione pubblica (specialmente della pubblicità) dall’altro, per meglio giungere a tale equilibrio. La chiusura di giornali, anche piccoli o ’di tendenza’ scalfisce e incrina uno dei beni pubblici per eccellenza: la democrazia.
Lo diceva Thomas Jefferson oltre 200 anni fa e lo dimostra oggi un’analisi empirica recente della Università di Princeton: la morte per inedia, a fine 2007, del piccolo Cincinnati Post (una circolazione di appena 27.000 copie) ha comportato una riduzione della partecipazione alle elezioni nei quartieri dove il quotidiano era più letto, nonché la sconfitta sistematica dei canditati a incarichi municipali residenti nei quartieri medesimi. Quasi in parallelo, uno studio comparato della University of Virginia, mostra che in 115 Paesi e in un arco di venti anni, c’è un forte nesso tra investimenti diretti dall’estero, progresso tecnologico e libertà di stampa.
Circa due anni fa, negli Usa è stata lanciata un’idea interessante, forversità mulata da David Swensen, direttore della finanza alla Università di Yale, e Michael Schmidt, docente di finanza aziendale presso lo stesso ateneo. Dato che la carta stampata è essenziale alla democrazia – hanno proposto – trasformiamo la natura economica dell’editoria in un comparto come le fondazioni non profit (analogo alla struttura delle uni- private) il cui stock di capitale sia una dotazione, fornita da filantropi, agevolati da esenzioni tributarie per la pubblicità, gli acquisti, gli abbonamenti, e da altre facilitazioni. Le finalità dovrebbero essere quelle di fornire informazioni e analisi, se si vuole pure di tendenza, ma svincolate dalle esigenze di breve periodo di rispondere a questa o a quella lobby, a questo o a quel partito politico. Si tratterebbe di fondazioni, però, non totalmente fuori del libero mercato: così come le università fanno pagare rette (direttamente proporzionali alla loro qualità e reputazione), i giornali andrebbero in edicola e farebbero a gara per spartirsi la torta pubblicitaria. In giornali di proprietà di fondazioni non profit, i giornalisti guadagnerebbero in autonomia e autorevolezza. Come per le università, la pubblicità, i lettori e le sovvenzioni correrebbero verso chi è più autorevole. Ci sono numerose proposte di legge d’iniziativa parlamentare all’esame del Congresso Usa – dove per la prima volta si pensa a un intervento pubblico nel settore, concetto che solo qualche anno fa avrebbe fatto gridare allo scandalo – mirate a rispondere alla crisi della stampa. Alcune prevedono imposte di scopo, ad esempio sui bingo, per finanziare i giornali (in una variante, ciascun editore dovrebbe gestire sale bingo con i cui utili tamponare le perdite dei giornali), ma sono state accantonate. Sta invece facendo strada il
Newspapers Revitalization Act proposto dal senatore Benjamin Cardin e poi sottoscritto da molti altri parlamentari in chiave bipartisan. Dà corpo all’idea di Swensen e Schmidt prevedendo appunto di cambiare l’assetto aziendale, trasformando i giornali in fondazioni non profit. Una strada che sembra aperta, ma non necessariamente sarà l’unica percorribile per fermare la crisi che sta stringendo strangolando l’informazione di qualità in tutti i Paesi occidentali.
ProPublica è una testata Web sostenuta dalla filantropia di magnati e di gente comune, che conduce inchieste e le offre gratuitamente a tutti gli altri media interessati a rilanciarle e ripubblicarle