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 2010  aprile 30 Venerdì calendario

LA PAURA DEGLI SVEDESI: "IL MEDIORIENTE IN CASA"


La Volvo S-60 imbocca veloce l’Amiralsgatan, la strada che taglia il quartiere popolare di Rosengard, il «giardino delle rose» di Malmö. La musica greca che riempie l’abitacolo fa a pugni con la timida primavera svedese che scorre fuori dai finestrini. Andreas Konstantinidis supera un paio di chioschi con le scritte in arabo per la vendita di kebab e falafel, si infila in un vialetto alberato e parcheggia: «Siamo arrivati». Oltre la bassa recinzione di legno, al centro di tre edifici di edilizia popolare, c’è il campetto dove Zlatan Ibrahimovic ha tirato i primi calci a un pallone. Tutt’intorno, si vedono solo donne con il velo che tornano a casa con la sporta della spesa.
Andreas Konstantinidis, il presidente di quello che è stato definito il ghetto della nuova Svezia multietnica, è un uomo dall’aria mite. Racconta di essere arrivato a Malmö nel 1974, anno dell’invasione di Cipro da parte della Turchia. Conosce palmo a palmo queste strade, i suoi palazzi, e le storie della difficile integrazione di chi li abita. Le statistiche parlano di 23 mila abitanti e 170 nazionalità, con una schiacciante prevalenza di Paesi segnati da guerre e lotte interne: Iraq, Afghanistan, Palestina, Somalia. Le percentuali di disoccupazione sono da brivido: quasi il 90 per cento non lavora e sopravvive con i sussidi del mitico welfare scandinavo.
Le violenze dell’altra notte non sono una novità. Sui quotidiani non passa giorno senza che le cronache non riportino episodi di scontri con la polizia e tensioni con la maggioranza sempre più esigua di svedesi (180 mila persone su un totale di 270 mila abitanti). E non mancano di sottolineare che tutto questo si deve al fatto che la grande maggioranza degli immigrati ha lo status di rifugiato politico. Come dire: gente che in Svezia non cerca una vita migliore ma che semplicemente si trasferisce qui per necessità vitale, finendo per esportare nella tranquilla Scania conflitti che infiammano terre lontane.
Nella moltiplicazione dei gesti e del loro contenuto simbolico, caratteristica del mondo globalizzato, non c’è da stupirsi se una pietra lanciata nei territori di Gaza finisce per infrangersi contro il parabrezza di un’auto della polizia di Malmö.
Che fare? Nel suo piccolo ufficio in Municipio, Mattias Karlsson, 33 anni, membro del direttivo nazionale della Sverige Demokaterna, una sorta di Lega Nord svedese, non ha dubbi: «Bloccare l’immigrazione, non c’è altra strada. Le statistiche ufficiali, già preoccupanti, nascondono la drammatica deriva di Malmö. Non dicono, per esempio, che i bambini figli di genitori entrambi svedesi sono ormai una minoranza rispetto a quelli che hanno un padre o una madre, o tutti e due, nati all’estero. Negli uffici pubblici ci sono dipendenti che sono stati assunti solo perché parlano arabo. Nelle piscine si tengono corsi separati per maschi e femmine. Le tradizioni natalizie si stanno perdendo per il timore di discriminare la popolazione musulmana. Per non parlare dei reati: il 90 per cento degli autori è straniero, il 90 per cento delle vittime è svedese». Karlsson non fa mistero delle ambizioni del suo partito: «Alle elezioni di settembre supereremo lo sbarramento del 4 % ed entreremo in Parlamento. A Malmö siamo già al 7,5%, e puntiamo a raddoppiare i nostri consensi».
Il fatto è che, come molte città post-industriali, anche Malmö sembra avere una vita sdoppiata. Paure alimentate da una dose di facile populismo, ma anche tante possibilità. Se da un lato la percentuale di reddito prodotta negli ultimi 40 anni dall’industria - in testa quella portuale - è precipitata dal 50 al 12 per cento, dall’altra la forte spinta migratoria ha contribuito ad abbassare l’età media della popolazione, collocandosi a livelli che il resto d’Europa si sogna, e facendo guadagnare a Malmö l’appellativo di città giovane, alla moda. «Cool and glamour» per usare le parole del giudice Kristina Hedlund, che in Tribunale si occupa dei ricorsi di quegli immigrati che per un motivo o per l’altro si sono visti negare il permesso di soggiorno.
«Questione di prospettive» ammette Kent Andersson, il vice sindaco socialdemocratico di Malmö. Che spiega: «Come tutti i grandi cambiamenti, anche quello che sta affrontando Malmö è una medaglia a due facce. Me ne accorgo quando presento i dati sull’età media della nostra popolazione. I professori universitari ne sono entusiasti: ”Che fortuna, avete un futuro assicurato”. Se invece ne parlo con un poliziotto, sono certo che quello scuoterà la testa: ”Poveretti, chissà quanta criminalità giovanile...”. Hanno ragione entrambi. Ma io mi dico: meglio avere tanti giovani da educare - per quanto sia difficile integrarli - che nessuno, come in Danimarca».
Questione di prospettive, certo. Anche Andreas Konstantinidis non vuole arrendersi: «Molte delle persone che vivono a Rosengard non si sentono svedesi, non vogliono essere svedesi, e forse ci vorrebbero più risorse da investire nella scuola per fargli cambiare idea. Ma io credo nel modello di questo Paese, e sono sicuro che alla fine ce la faranno come ce l’ho fatta io». Fra i 2 mila membri della comunità ebraica sono pochi a pensarla allo stesso modo: «E’ un illuso. Malmö è diventata una provincia del Medio Oriente. I nostri studenti sono minacciati di morte. Quando entriamo nelle classi per parlare dell’Olocausto i ragazzi stranieri escono perché si rifiutano di ascoltare. Molti di noi hanno già fatto le valigie e si sono trasferiti in Israele».