Federico Fubini, Corriere della Sera 30/04/2010, 30 aprile 2010
IL (TROPPO) POTERE DELLE AGENZIE DI RATING
Robert Willumstad, amministratore delegato di Aig, un giorno scoprì all’improvviso il potere delle agenzie di rating. Il 16 settembre 2008 Moody’s e Standard & Poor’s (S&P’s) declassarono il grande gruppo assicurativo americano che fino a poco tempo prima aveva avuto la «tripla A», il massimo della solidità sul debito. Il vecchio manager si afflosciò sulla scrivania: per quella decisione, Aig avrebbe dovuto trasferire entro poche ore dieci miliardi di dollari, che non aveva, a certi clienti di cui aveva assicurato le posizioni emettendo dei derivati.
Seguì un salvataggio a spese del contribuente americano il cui conto finale arrivò a 187 miliardi. Per la sua integrità Aig dipendeva dai rating, che però dovevano esprimere un giudizio su quella stessa integrità. L’ordine di successione fra l’uovo e la gallina non era chiarissimo ma, avesse avuto i soldi in cassa, a Willumstad sarebbe piaciuto poter liquidare il declassamento per esempio come ha fatto Dominique Strauss-Kahn mercoledì. Sull’ultimo taglio al voto sulla solvibilità dei governi di Grecia, Portogallo e Spagna da parte di S&P’s, il direttore del Fondo monetario internazionale ha avuto una sola frase: «Non si dovrebbe credere troppo a ciò che dicono le agenzie di rating, benché possano essere utili».
Negli ultimi tempi sono state utili ad alcuni. Lo sono state ad esempio ad Abacus, il veicolo finanziario di Goldman Sachs sotto inchiesta per frode sui titoli, perché ottenne un rating dignitoso anche se era stato costruito (secondo la Sec) per crollare. Ma lo scetticismo di Strauss-Kahn si riferiva a altre decisioni delle agenzie, quelle di pochi giorni fa a proposito dei governi europei. Lunedì S&P’s ha ridotto il voto sulla Grecia a livello «spazzatura», con ulteriori prospettive negative, proprio mentre il governo di Atene stava negoziando nuove misure di risanamento e nel mercato cresceva il panico. Poi ha affondato anche su Lisbona e Madrid, in un momento così delicato che anche il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle ora chiede un arbitro «indipendente» e «europeo».
Nate per fornire una guida ai mercati, spesso le agenzie di rating finiscono semplicemente per seguirli e amplificarne i crolli. Ma il caso ellenico di questi giorni pone un dilemma particolare. L’agenzia sapeva che Atene sta negoziando un nuovo piano di risanamento triennale. Fra poche ore l’Fmi e i governi europei otterranno un impegno formale del premier George Papandreou a tagliare gli stipendi pubblici e le pensioni (addio tredicesime e quattordicesime), rinviare l’età del ritiro, privatizzare i porti. Se Standard & Poor’s valuta solo «guardando avanti», come spiega, perché non ha atteso di vedere le nuove misure prima di bocciare di nuovo la Grecia? La stessa domanda potrebbe valere anche per le mosse su Lisbona oMadrid, perché anche lì la bocciatura è arrivata mentre i governi preparavano nuove misure e i mercati erano in preda al contagio.
Ma il caso ellenico è un’altra storia. Mentre S&P’s ha relegato Atene a «spazzatura», la sua principale concorrente Moody’s spiega che per decidere «aspetta che vengano resi noti i dettagli del programma con l’Ue e l’Fmi». Quella di Standard & Poor’s contro la Grecia (e la Spagna, e il Portogallo) sa dunque di valutazione non più solo tecnica: è un giudizio negativo sul sostegno politico che i greci avranno dagli europei e dall’Fmi e sulla credibilità di un’operazione che coinvolge quindici governi e l’organismo centrale del sistema di Bretton Woods. Anche le decisioni di grandi gruppi celebri alla fine toccano a uomini in carne ed ossa, persone con una propria storia. E qui le differenze fra S&P’s e Moody’s non sembrano del tutto fortuite. Il capo dell’analisi economica e finanziaria internazionale di Moody’s, Pierre Cailleteau, vive a New York ma è cresciuto come funzionario (transalpino) della Banca di Francia. A Standard & Poor’s invece il presidente del comitato che decide sui rating dei 110 Stati sotto esame risponde al nome di John Chambers: un americano il cui titolo di studio è un Master in letteratura inglese alla Columbia University. Forse non è dunque solo un caso se per S&P’s (ma non per Moody’s) gli Stati Uniti sembrano destinati a mantenere in ogni caso la «tripla A», il massimo dei voti, mentre il debito cresce rapidamente verso il 100% del prodotto e il deficit annuale è simile a quello della Spagna e superiore al Portogallo. Per l’America conta «il quadro istituzionale» (ancora un giudizio politico); la Cina invece, grande creditore di Washington e forte di un colossale surplus netto del settore pubblico, continua ad avere un rating cinque livelli sotto Washington, due livelli sotto la Slovenia, e senza prospettive di promozione.
Forse indovinare un rating nella complessità del XXI secolo è semplicemente impossibile. O forse non è chiaro perché un’agenzia privata debba dare un rating alla Spagna, all’Italia o agli Stati Uniti. Vero che alle banche e ai fondi istituzionali è utile, perché queste istituzioni sono obbligate a detenere in portafoglio o in bilancio certe quote di titoli con rating elevati (un declassamento, come avvenuto con la Grecia, scatena dunque un’ondata di vendite forzate).
Eppure per le agenzie di rating giudicare gli Stati ha in apparenza poco senso: S&P’s, Moody’s e Fitch, i tre oligopolisti resi tali dalle licenze concesse con il contagocce dai regolatori americani, con i governi non fanno soldi. Probabilmente ne perdono: le commissioni pagate da Roma o Berlino per farsi giudicare non coprono né il salario degli analisti coinvolti, né le loro spese. Il bilancio di Moody’s, l’unica a fornire qualche dettaglio sull’origine dei ricavi da rating, mostra che gran parte delle commissioni deriva da altre fonti: prima della crisi per metà era la «finanza strutturata» ( subprime e simili), oggi molto viene da emissioni delle imprese e dalle operazioni delle banche. Perché allora un operatore privato dovrebbe perdere tempo e denaro con un governo «spazzatura»? Magari è solo che da lì viene molto del potere delle agenzie di rating su banche e fondi d’investimento, e molta della loro visibilità.
Criticate nel 2007 per aver dato in silenzio voti troppo alti a migliaia di titoli immobiliari in cambio di laute commissioni, con (certi) governi le agenzie si rifanno una credibilità. Perché avranno anche validi argomenti. Ma accusare sotto i riflettori, a volte, è comunque meglio che assolvere nell’ombra.