Varie, 29 aprile 2010
SCHEDONE SULLA CHIAZZA PETROLIO IN LOUISIANA
[SOPRA AGGIORNAMENTI DI OGGI, 29/4/2010, SOTTO ARTICOLI USCITI NEI GIORNI SCORSI]
AGI/AFP, 29 aprile 2010
Cinquemila barili di petrolio al giorno e un’altra falla, la terza, sul letto marino: sono le notizie, peggiori di quanto finora si fosse temuto, che arrivano dal golfo del Messico dove le squadre di intervento mercoledi’ hanno cominciato ad incendiare una parte del petrolio che fuoriesce dalla piattaforma affondata della Deepwater Horizon. Gli sforzi per cercare di contrastare la macchia di petrolio lucente, che ormai ha raggiunto dimensioni gigantesche (160 chilometri sul lato piu’ lungo, 70 su quello piu’ ampio) coinvolgono decine di navi ed aerei: dopo che i robottini sottomarini non sono riusciti ad applicare una valvola per turare le brecce sottomarine, la Bp e la Guardia costiera hanno deciso di appiccare un "rogo controllato" per bruciare una parte del greggio fuoriuscito. Ormai e’ una corsa contro il tempo nel Golfo del Messico per fermare la marea nera che si avvicina alla costa della Louisiana (le prime avvisaglie dovrebbero arrivare alla terraferma nella serata di oggi). E adesso si fa sempre piu’ concreto il paragone con il disastro della Exxon Valdes, nel 1989, in Alaska. La Guardia Costiera Usa ha reso noto che il greggio che fuoriesce dal pozzo sottostante la piattaforma esplosa e’ superiore di cinque volte a quanto finora stimato: in pratica si riversa in mare ogni giorno l’equivalente di 5.000 barili di petrolio. In realta’ la British Petroleum, che ha ammesso di aver trovato una terza falla, a 1.550 metri sotto il mare, ha contestato i dati: "C’e’ una leggera divergenza d’opinione", ha detto un portavoce, confermando le stime precedenti, 1.000 barili al giorno.
Poco dopo l’annuncio della Guardia Costiera, il governatore della Louisiana ha detto di aver chiesto nuovi aiuti d’emergenza per proteggere il fragile ecosistema delle coste.
Bobby Jindal ha chiesto fondi supplementari al Department of Homeland Security di Janet Napolitano, "dopo la notizia che una parte della chiazza, sospinta dai venti, si appresta a riversarsi sulle coste, prima del previsto, gia’ stasera". La marea nera, che misura 965 chilometri di circonferenza, si trova ormai a 26 chilometri dalla Louisiana. Le autorita’ hanno piazzato 30 chilometri di bome e barriere gonfiabili al largo delle coste, ma secondo Jindal ne servono altre. Mercoledi’ intanto le squadre di soccorso hanno fatto un test del ’rogo controllato’ per bruciare il greggio: due imbarcazioni della Guardia Costiera e della Bp hanno prima isolato una porzione della chiazza con barriere gonfiabili ignifughe e poi l’hanno trascinata, isolandola dal resto della marea. Il primo fuoco e’ stato appiccato alle 16:45 ora locale ed e’ stato fatto bruciare per circa un’ora; gli altri fuochi hanno mandato in fumo tra il 50 e il 90 per cento del petrolio catturato; e altrettanto verra’ fatto nei prossimi giorni. Ma questa misura presenta comunque gravi pericoli per l’ambiente, perche’ innalza nel cielo colonne di fumo nero e rilascia in mare detriti di fango; e dunque adesso sara’ essenziale controllare la qualita’ dell’aria durante le operazioni. Non solo: Charlie Henry, uno dei coordinatori scientifici del NOAA (National Oceanic and Atmospheric Admnistration), ha detto che e’ altamente probabile che i forti venti in arrivo da sud-est spingano il petrolio dentro il delta del Mississippi gia’ venerdi’ sera; e se il greggio sara’ trascinato entro le paludi acquitrinose della Louisiana, ripulirlo sara’ praticamente impossibile: sara’ un disastro per le riserve naturali ricche di uccelli acquatici e rare specie animali, ma inquinera’ irrimediabilmente anche l’industria della pesca locale (parchi di ostriche, frutti di mare e pesche del valore di 2,4 miliardi di dollari all’anno), che rifornisce gran parte del mercato statunitense. Finora gli sforzi della BP per tappare le falle sono falliti: i quattro bracci robotici utilizzati martedi’ a 1.500 metri di profondita’ non ce l’hanno fatta a turare le brecce. Gli ingegneri stanno cercando di costruire un’enorme cupola sottomarina per tappare la brecce. Un progetto inedito: "Invece di riversarsi in acqua, il petrolio finira’ in questa struttura" ha spiegato un portavoce della Guardia costiera. Ma la costruzione ha tempi lunghi, non meno di due-quattro settimane. Un’altra trivella della Transocean e’ pronta a realizzare due nuovi pozzi sottomarini per canalizzare il flusso di petrolio verso altre condutture. Ma anche in questo caso, ci vorranno mesi per la realizzazione. Una situazione drammatica che mette decisamente in forse i piani di perforazione off-shore annunciati dal presidente, Barack Obama.
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repubblica.it, 29 aprile 2010
Marea nera, c’è una terza falla. Louisiana verso il disastro ambientale
NEW ORLEANS - Nella piattaforma della Bp affondata nel Golfo del Messico è stata scoperta una terza falla sottomarina. Aggiornando il calcolo sulla quantità di greggio fuoriuscita, si arriva a una portata di di 5mila barili al giorno, cinque volte superiore a quella precedentemente stimata. Quanto basta per mettere in grandissimo allarme le coste degli Stati Uniti. La Bp, pur ammettendo l’esistenza della terza falla, a una profondità di 1.550 metri, contesta i dati sulla quantità di fuoriuscita di greggio, restando ferma sulla stima precedente mille barili al giorno.
Minacciate sempre più da vicino la Louisiana e New Orleans in particolare, che vedono avvicinarsi inarrestabile la chiazza di petrolio, estesa lungo un fronte di 160 chilometri per 70 di ampiezza. Le prime macchie di petrolio dovrebbero raggiungere la costa nella serata di oggi. A nulla è servito per ora né l’utilizzo di robot sottomarini per tamponare le falle né la strategia di un incendio "controllato" per isolare e frenare la chiazza di greggio.
L’intervento condotto ieri dalle squadre di soccorso è consistito nell’isolare porzioni della chiazza e appiccarvi fuoco. Il primo incendio controllato è stato appiccato alle 16:45 ora locale ed è stato lasciato bruciare per circa un’ora; gli altri hanno mandato in fumo tra il 50 e il 90 per cento del greggio isolato. L’operazione continuerà anche nei prossimi giorni, sebbene questa procedura presenti gravi pericoli per l’ambiente.
Per proteggere quello della Louisiana, il governatore Bobby Jindal ha chiesto fondi supplementari al dipartimento per la Sicurezza interna di Janet Napolitano. Ma già si lavora alla protezione delle coste dalla marea nera. Come racconta un esperto del NOAA (National Oceanic and Atmospheric Admnistration) al New York Times, "sono già stati disposti 30 chilometri di barriere lungo la costa, con altri 150 pronti ad essere posizionati. Altre misure che stiamo per mettere in atto sono l’uso dei cannoni per spaventare gli uccelli e farli volar via e l’impiego dei battelli dei pescatori per versare detergenti dove ci sono le secche".
Il territorio a rischio rappresenta il 40% delle aree umide, oltre al principale sito di pesca degli Stati Uniti. Un’area di passaggio per gli uccelli migratori, in cui anche mammiferi e cetacei sono minacciati, perché potrebbero ingerire acqua contaminata o perché le loro prede potrebbero essere ricoperte di petrolio. Se il greggio sarà sospinto nelle paludi della Louisiana, ripulirlo sarà praticamente impossibile: un disastro per le riserve naturali.
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corriere.it, 29 aprile 2010
l governatore della Louisiana chiede aiuti supplementari. Marea nera: 5 volte peggio delle prime stime.
NEW ORLEANS - La fuoriuscita di petrolio dalla piattaforma della Bp Deepwater Horizon sprofondata nel Golfo del Messico il 22 aprile scorso è cinque volte più grande di quanto stimato inizialmente. Secondo quanto ha riferito la Guardia costiera americana, si stanno riversando in mare più di 5 mila barili di greggio al giorno, dopo la scoperta di una nuova falla. Michael Abdenhoff, portavoce della Bp, ha confermato l’esistenza di una terza falla a 1.550 metri sotto il mare, ma ritiene che questa non abbia provocato un incremento della fuoriuscita di petrolio. «C’è una leggera divergenza d’opinione. Abbiamo trovato una nuova falla, che si aggiunge alle due falle già esistenti. Ma noi pensiamo che il volume di petrolio che fuoriesce in mare resti invariato».
AIUTI - Il governatore della Louisiana, Bobby Jindal, ha lanciato un appello affinché siano inviati aiuti d’emergenza per scongiurare una catastrofe ambientale: «La nostra priorità assoluta è quella di proteggere i nostri cittadini e l’ambiente. Gli aiuti supplementari sono fondamentali per attenuare l’impatto della marea nera sulle nostre coste», ha detto il governatore in un comunicato.
INCENDI CONTROLLATI - La Guardia costiera Usa ha iniziato gli incendi controllati della marea nera che si sta pericolosamente avvicinando alle coste della Louisiana. La macchia è ormai arrivata a 32 chilometri dalle spiagge e le prime tracce potrebbero raggiungere le coste nel fine settimana. L’operazione è già cominciata e, se dovesse andare bene su piccole porzioni della chiazza, si continuerà su più larga scala. La macchia di petrolio ha ormai ha raggiunto una superficie di 74 mila chilometri quadrati (come Piemonte, Lombardia e Veneto messi insieme) e una circonferenza di 970 chilometri. Sono decine le navi e gli aerei che cercano di contenerla dopo che i robot sottomarini non sono riusciti ad applicare una valvola per turare le falle sottomarine.
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Maurizio Molinari, La Stampa 27 aprile 2010
Un gigantesco disastro naturale incombe sul Golfo del Messico e la Us Navy mobilita i robot sottomarini per scongiurarlo. Tutto è iniziato la notte del 20 aprile, quando un’esplosione accidentale ha investito la piattaforma petrolifera off-shore «Deepwater Horizon» al largo della Lousiana, trascinando sui fondali 11 operai i cui corpi non si sono ancora trovati. L’allarme-inquinamento è scattato subito, con il governo federale e lo Stato della Louisiana che hanno mobilitato ingenti mezzi per scongiurare il peggio ma a sette giorni dal disastro il tentativo di chiudere i tubi troncati dall’esplosione continua a non riuscire. La maggiore fonte di inquinamento è un rubinetto gigante, situato a 1500 metri si profondità dal quale ogni giorno fuoriesce l’equivalente di 1000 barili di greggio ovvero circa 160 mila litri.
La quantità di greggio già dispersa nelle acque calde del Golfo del Messico è oramai imponente e ha dato vita ad una marea nera che si muove verso Nord espandendosi tanto a Est che ad Ovest, minacciando le coste di quattro Stati americani dalla Louisiana alla Florida. Si tratta di un paradiso naturale, dove si riproducono balene, tartarughe, squali e delfini oltre ad una miriade di altre specie marine, a ridosso di coste con sabbiose spiagge larghe e bianche meta dei turisti che arrivano da ogni parte del mondo. Tutto ciò rischia di finire sotto la minacciosa onda nera giunta oramai ad appena 30 miglia nautiche dalle isole Chandeleur della Louisiana.
L’Ente federale per la protezione degli oceani tenta di rassicurare governatori e sindaci locali parlando di «un periodo di diversi giorni» prima dell’arrivo del petrolio lungo la costa ma i continui fallimenti dei tentativi di riparazione fanno temere il peggio a Bobby Jindal, governatore della Louisiana, che ha ordinato alla Guardia Nazionale di posizionare sulle acque del Golfo a ridosso della costa delle barriere di contenimento al fine di proteggere un’area naturale alla foce del Mississippi nella quale vivono e si riproducono alligatori, uccelli e pesci. Haley Barbour, governatore del vicino Stato del Mississippi, ha riunito i comandi della Guardia Costiera nel suo ufficio per varare un piano di «protezione delle comunità costiere» ma si è sentito rispondere che «è molto difficile determinare quale potrebbe essere un piano di difesa davvero efficace».
Anche la British Petroleum, gestore del pozzo off-shore andato distrutto, ha fatto affluire squadre di specialisti - impegnandosi a coprire i costi dell’intera operazione di bonifica delle acque - ma senza alcun esito. Nel tentativo di rompere l’impasse si è mosso il Pentagono, inviando quattro robot sottomarini dotati di bracci meccanici per provare a chiudere in qualche maniera i grandi tubi di acciaio sui fondali. La Us Navy però non si sbilancia sui tempi dell’operazione e il progressivo avvicinarsi della marea alla terraferma spinge i gruppi ambientalisti a mobilitarsi contro l’amministrazione Obama che solo poche settimane fa aveva annunciato un piano nazionale per scavare nuovi pozzi davanti alle coste oceaniche e in particolare proprio nel Golfo del Messico.
«Siamo di fronte a migliaia di litri di greggio trasformati in una mousse-killer di cioccolato che sta devastando il Golfo» osserva Aaron Viles, direttore del «Gulf Restoration Network», parlando di «incidente annunciato», perché «è ovvio per tutti che trivellare vicino alle coste espone a enormi rischi». «Speriamo che Obama si accorga di quanto sta avvenendo e ripensi il piano di trivellazioni che ha annunciato il 31 marzo», aggiunge Viles, chiamando in causa la Casa Bianca che reagisce con il portavoce Robert Gibbs: «Bloccare la marea nera è la priorità numero 1». Il pericolo di un disastro ambientale imbarazza anche l’opposizione repubblicana che, con John McCain e Sarah Palin, nel 2008 sostenne la necessità del piano di nuove trivellazioni.
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Carlo Grande, La Stampa 27 aprile 2010
Il petrolio è torbido, micidiale, ci ha resi schiavi dal punto di vista energetico ed economico. Continuare a usarlo è sempre più complicato, i tanti disastri avvenuti in questo cinquantennio stanno a dimostrarlo, così come gli scarsi progressi tecnici nel combattere l’inquinamento, che avviene comunque per lo più a causa delle perdite di raffinerie o di impianti di trivellazione e soprattutto per lo scarico a mare di acque di zavorra da parte di navi cisterna e petroliere. Solo il 10% dei danni provengono da perdite accidentali, il resto è riversamento cronico.
Quanto ai disastri, l’elenco è lunghissimo. Nel 1967 la Torrey Canyon naufraga nel canale della Manica, 120 mila tonnellate di greggio finiscono su 180 chilometri di coste inglesi e francesi. Nel 1978 tocca all’Amoco Cadiz, davanti a Porstall (Finistère), oltre 230 mila tonnellate di greggio in mare, sul litorale fra Brest e la baia di Saint-Brieuc.
Uno dei più gravi disastri ecologici (il più grande negli States) è firmato Exxon Valdez, che nel marzo 1989 si incaglia nella baia di Prince William in Alaska, perdendo 50 mila tonnellate di greggio. Inquinati 1900 chilometri di coste, una delle più spettacolari baie d’Alaska. Fra i danni collaterali, il cormorano con le ali incatramate, immagine-cliché ormai arci-abusata.
Nel 1991 fanno disastri la petroliera Haven davanti alla costa ligure e i pozzi petroliferi in Kuwait incendiati durante la guerra del Golfo, ma l’ultima catastrofe del millennio è in Turchia, il 29 dicembre 1999: nello stretto di Marmora si spezza in due una petroliera russa, quasi 5 mila tonnellate di grezzo finiscono sulla costa e sul porto di Costantinopoli. Pochi giorni prima, il 12 dicembre, al largo delle coste bretoni, con 10 mila tonnellate di greggio la Erika aveva sfregiato una delle coste più belle dell’Atlantico e della Francia, area naturale protetta (si fa per dire).
Alla fine dell’anno scorso proprio una piattaforma di trivellazione nel Mare di Timor, al largo della regione del Kimberley australiano, per oltre due mesi e mezzo ha riversato greggio e sostanze chimiche tossiche. Il più grave disastro ambientale degli ultimi 40 anni in Australia.
L’uomo non ha molti mezzi per arginare le maree nere. In passato si irroravano le pellicole oleose con sostanze emulsionanti, più dannose del petrolio stesso. Oggi si preferisce ricorrere a barriere galleggianti e a imbarcazioni che raccolgono il petrolio con una specie di «raschiatura» sulla superficie del mare; le macchie vengono spruzzate con emulsionanti solo se minacciano la costa. «Con il mare mosso si può fare ben poco», conferma Alessandro Giannì, esperto di ambiente marino e responsabile delle campagne di Greenpeace. «Gli emulsionanti con il mare mosso non servono a nulla. Nemmeno si riesce a confinare il petrolio che galleggia e poi ad aspirarlo». In qualche caso si usano batteri capaci di degradarlo, i risultati sono incoraggianti ma per attivare i batteri bisogna aggiungere alle colture nutrienti potenzialmente nocivi per gli ecosistemi litoranei e per le acque.
Il petrolio in mare viene degradato naturalmente dall’ambiente con processi fisici, chimici e biologici. Galleggiando sull’acqua si allarga rapidamente in un’ampia chiazza, disponendosi in strati di vario spessore, che le correnti e i venti trasportano a grandi distanze e dividono in «banchi» paralleli alla direzione dei venti. Le frazioni più volatili del petrolio evaporano in pochi giorni. Altre componenti penetrano negli strati superiori dell’acqua, avvelenando gli organismi marini, e lentamente vengono ossidati biochimicamente da batteri, funghi e alghe. Le frazioni più pesanti vagano sulla superficie del mare fino a formare grumi difficilmente degradabili che affondano lentamente fino a raggiungere il fondo.
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Angelo Arquaro, la Repubblica 27 aprile 2010
Quando dovremmo cominciare a preoccuparci, professore? «Da adesso: anzi, è già tardi». La risposta di Greg McCormack, uno dei più grandi esperti di petrolio, docente all´università di Houston, gela il conduttore della Cnn. La grande macchia nera che si allarga nel Golfo del Messico, estesa più dell´intera New York, tra due giorni potrebbe lambire le coste della Lousiana, il disastro ambientale è alle porte, ma l´America si sta svegliando lentamente dal sonno dei primi giorni. Sarà stato, per la verità, l´incubo per quell´incidente devastante, undici morti allo scoppio della piattaforma della Deepwater Horizon, la società svizzera affittata dalla British Petroleum per andare a prendersi il petrolio fin laggiù, 1500 metri, profondità impensabili fino a pochi anni fa. Sarà stata, soprattutto, la sicurezza con cui il disastro nelle prime ore era stato negato dai tecnici della Bp, la multinazionale che con l´aumento del prezzo dei petrolio sta segnando quei guadagni record che hanno portato ai suoi manager ricchissimi bonus - su cui adesso, insieme a quelli di Shell, Exxon Mobil e Chevron, indaga il governo.
Ma ora una quantità di petrolio equivalente a mille barili al giorno già sgorga dalle due falle del pozzo che si chiama Macondo, come il paese immaginario di Garcia Marquez, solo che questa non è finzione, questa è realtà tragica. Soltanto le cattive condizioni del tempo che hanno devastato gli Stati Uniti del Sud (una decina di morti) stanno tenendo lontana la chiazza, un´ottantina di chilometri dalle coste della Lousiana, appena una trentina dal paradiso naturale delle isole Chandeleurs.
Venice, Louisiana, la base d´azione della Bp, si è trasformata in una zona di guerra, 500 uomini al lavoro, 32 navi, 5 aerei, «il petrolio è nostro e lo ripuliamo», dicono i manager accorsi dall´Inghilterra, «ce la faremo», continua a ripetere il chief executive Tony Hayward. Ma appena la piattaforma era esplosa, il 20 aprile scorso, mandando a fondo quel gioiellino da 600 milioni di dollari e undici povere vite, sempre i suoi uomini dicevano che era tutto sotto controllo. Adesso i tecnici hanno mandato laggiù i robottini sottomarini ad arginare le falle facendo scattare una sorta di valvola di sicurezza: una tecnica mai provata a quella profondità. Il petrolio viene anche raccolto attraverso una specie di «cupola», di «coppa» gigante, posta sopra le perdite delle pompe: anche questa, però, una tecnica che la pressione a quella profondità potrebbe vanificare. Se l´operazione non riesce nel giro di 48 ore, bisognerà passare al piano B, scavare un altro pozzo e cercare di intercettare le perdite dell´altra bocca iniettando gas e altre sostanze chimiche bloccanti: ma ci vorrebbero settimane, mesi. Probabilità di riuscita? «Prego per il piano A», spiega il prof McCormack «non vorrei dover ricorrere alla seconda ipotesi».
Per gli ambientalisti è già disastro. New Orleans e la Louisiana, economicamente piegate dall´uragano Katrina, agosto 2005, temono per l´industria del pesce, 2 milioni di dollari, per l´ambiente, il turismo. La zona aggredita dalla macchia è un paradiso di mille specie, dalle cernie agli squali, questa è la stagione in cui comincia la riproduzione del tonno rosso.
Il disastro sarebbe anche politico: meno di un mese fa, per la rabbia degli ecologisti, Barack Obama ha cancellato il ventennale veto alle nuove trivellazioni. La grande macchia nera rischia di lambire anche la Casa Bianca.
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Antonio Cianciullo, la Repubblica 27 aprile 2010
« una decisione che va presa rapidamente: o si riesce a chiudere la falla o bisogna seppellire tutto in un sarcofago di calcestruzzo. Non c´è tempo da perdere, non si può lasciar finire in mare una simile quantità di petrolio». A parlare è Alberto Gasparin, il titolare della Palumbarus, la società che ha partecipato al recupero del DC9 precipitato a 3.600 metri di profondità nelle acque di Ustica e che si è candidata per ripescare le navi dei veleni affondate davanti alle coste della Calabria.
Escono mille barili al giorno e la macchia nera minaccia sia le aree paludose della Louisiana che l´oasi verde delle Chandeleurs. Se gli interventi fallissero cosa potrebbe succedere?
«Non voglio prendere in considerazione la possibilità di un fallimento. La tecnologia per affrontare casi del genere esiste, bisogna solo metterla in pratica. Usando i robot e i sottomarini si può agire in sicurezza, anche se è difficile entrare nel merito tecnico di questo specifico intervento perché ogni situazione è una situazione a sé. Occorre conoscere i dettagli per poter programmare un´azione efficace».
La profondità è un problema?
« un costo, non un problema. Siamo a poco meno di 1.500 metri. Abbiamo gli strumenti per operare a profondità anche maggiori: già negli anni Settanta gli americani hanno portato a galla un sommergibile russo affondato a 4.500 metri. In questo caso quello che si doveva fare subito è stato fatto: si è intervenuti con una prima fase di ricognizione per capire la natura del guasto. Anche se mi sembra che il problema non sia stato ancora ben chiarito: la diagnosi precisa non c´è».
Si è parlato della rottura di un tubo di conduzione del petrolio verso la superficie del mare.
« una delle due ipotesi. L´altra è che si sia prodotto un guasto sotto l´unità di controllo. Cioè sotto quella grande stanza che si piazza sul fondo del mare e che fa da cabina di regia per l´operazione di prelievo».
Cosa può essere successo sotto l´unità di controllo?
«Può aver ceduto un giunto, o una saldatura. Anche se è un fatto piuttosto raro».
Comunque incidenti del genere ogni tanto accadono. Non ci sono sistemi automatici di prevenzione?
«Certo che ci sono. Ad esempio in caso di rottura del tubo che trasporta il petrolio una valvola automatica blocca l´afflusso».
Questa volta non è successo.
«Già. E quindi o la valvola era difettosa oppure il guasto è avvenuto sotto l´unità di controllo».
Per ora sono entrati in azione quattro robot: basteranno?
«Non credo proprio. I robot svolgono una funzione ispettiva: scendono, guardano, filmano e poco altro. Questo genere di macchine ha una capacità di azione limitata: può effettuare operazioni semplici come stringere o bloccare un bullone. Ma per una riparazione più complessa ci vuole altro».
Cosa?
«Un sottomarino con un sistema di braccia artificiali in grado di svolgere fino a 24 diverse operazioni. Con un attrezzo del genere si può ad esempio applicare un particolare giunto, una specie di camicia che autoaderisce alla superficie bloccando la fuoriuscita».
Sembra facile.
« costoso. Un sottomarino del genere costa diversi milioni e nel mondo non sono più di venti le aziende che ne possiedono uno».
Quanto tempo può servire per bloccare l´emorragia di petrolio?
«In teoria mezz´ora, un giorno, un mese. Ma in una situazione del genere non si può lasciar passare più di qualche giorno. Se il problema non si risolve, occorre intervenire coprendo tutto con un manto di calcestruzzo. Poi si torna a perforare in un punto vicino».
Quanto potrebbe durare il flusso di greggio in mare?
«Anche se abbiamo tutti visto molti film in cui il petrolio schizza dal pozzo all´improvviso coprendo tutti i felici proprietari di una patina melmosa, in realtà un fatto del genere è piuttosto raro».
Questa volta è successo.
«Può succedere. In Texas è accaduto con una certa frequenza. Funziona così: il petrolio è racchiuso in una specie di sacca sopra uno strato di argille. Le argille sono elastiche e si comprimono. Se poi, perforando alla ricerca del greggio, le buchi, scoppiano come un palloncino spingendo il petrolio verso l´alto».