Magris Claudio, Corriere della Sera, 28 aprile 2010, 28 aprile 2010
Cultura Anniversari A cento anni dalla morte, Iperborea ripropone uno dei capolavori dello scrittore
Cultura Anniversari A cento anni dalla morte, Iperborea ripropone uno dei capolavori dello scrittore. Il rigore morale e le contraddizioni della vita Quando la patria dimentica i padri L’ eredità riscoperta di Bjørnson, Nobel norvegese Il luogo e il tema In una natura desolata, scienza e fede si contendono vanamente la soluzione del mistero legato all’ esistenza I padri non hanno vita facile, anche e specialmente in letteratura, e non godono di buona stampa, a differenza dei figli, cui va l’ istintiva solidarietà e simpatia perché li si vede incompresi, generosi pur nelle trasgressive ribellioni, fragili anche nell’ aggressività magari ingiusta, nobili nella radicalità pur prevaricatrice. I padri rappresentano la responsabilità, con tutta la grandezza, la seriosità e la fatale compromissione legate ad ogni responsabilità; quest’ ultima è più difficile e complessa della passione, ma è certo meno attraente. Siamo tutti dalla parte di Edipo che uccide Laio; anche nella parabola evangelica il protagonista è il figliol prodigo, non il padre, che pure ha il compito più ingrato e difficile, quello di accoglierlo con slancio ma anche con avveduta attenzione, per far capire all’ altro fratello che non gli si vuole far torto. In quella parabola, che per la fede cristiana è scritta dalla stessa verità divina, il padre è figura di Dio e il figliol prodigo dell’ uomo; evidentemente gli uomini, con il loro disordine e le loro cadute, destano, per la retorica pappa del cuore, più interesse di Dio con la sua universalità che deve tener conto di tutto e di tutti. Pure in letteratura i grandi padri - gli scrittori che esercitano un eminente ruolo rappresentativo e simbolico, padri della Patria, campioni della Libertà e del Progresso, eroi del Dissenso - corrono forti rischi. In genere, dopo un’ iniziale periodo di gloria marmorea, incorrono nell’ oblio o nell’ irrisione. Bjørnstjerne Bjørnson - il grande scrittore norvegese di cui ricorre il centenario della morte e del quale Iperborea ripubblica uno dei capolavori, Al di là delle forze umane, ottimamente tradotto e presentato da Giuliano D’ Amico - è uno di questi numi tutelari prima osannati e poi accantonati. Bjørnson ha tutti i requisiti per subire l’ ingiusto destino dei grandi Padri Fondatori. Premio Nobel nel 1903, autore del testo dell’ inno nazionale della Norvegia divenuta Stato indipendente nel 1905, egli è stato celebrato in tutta Europa (D’ Amico ricorda, ad esempio, le solenni commemorazioni ufficiali per la sua morte in Italia). Autore poliedrico di racconti paesani - come il nostalgico e struggente idillio Synnöve Solbakken - romanzi borghesi di critica sociale e soprattutto di possenti drammi, Bjørnson ora sembra quasi dimenticato. Democratico generoso, si è battuto per le minoranze allora oppresse - ad esempio per gli slovacchi - ed ha affrontato grandi temi ottocenteschi, la critica alle istituzioni borghesi, all’ ipocrisia sociale e alle menzogne convenzionali su cui si reggono le gerarchie politiche, economiche ed etiche. Nutrito di cultura positivista, è stato un progressista radicaleggiante, non senza evitare il rischio di un moralismo ottimista impari alle inquietudini e alle lacerazioni della vita e soprattutto della modernità. In ogni responsabile padre - di famiglia o della patria - ci può essere un pizzico del padre di Armando nella Signora della camelie, che allontana la donna pericolosa e irregolare amata dal figlio, nel quale peraltro ci può essere un pizzico del bambino viziato cui tutto è dovuto. «Falso come un oratore ufficiale», disse Strindberg di Bjørnson. Ma il grandissimo Strindberg era, in questo caso, irresponsabilmente ingiusto; del resto aveva il bisogno di esserlo, nella parabola della sua vita e della sua creazione. C’ è una grande, geniale inquietudine in Bjørnson, una fortissima sensibilità per le contraddizioni della vita, che egli coglie e rappresenta con grande potenza poetica. Negli anni della sua vita e della sua opera, la Norvegia, questa incantevole e appartata periferia d’ Europa, diviene una capitale della letteratura mondiale; dai suoi fiordi solitari, dalle sue aspre montagne e dai suoi boschi silenziosi, nasce una letteratura che esprime, con straordinaria genialità, la trasformazione epocale che stava avvenendo nella storia d’ Europa e nella psiche dell’ individuo, mutandolo radicalmente. Sono grandi voci come quelle di Lie e Kjelland, i cui bellissimi romanzi borghesi ispirarono Thomas Mann; il genio assoluto di Ibsen, forse ancora insuperato nella rappresentazione di una drammatica lacerazione della nostra civiltà non ancora sanata; e appunto Bjørnson. Nato a Kvikne, fra le desolate montagne, e cresciuto nella parrocchia paterna di Nesset, anche Bjørnson è uno di quei «figli di pastori» cui la letteratura tedesca e nordica deve tante grandissime pagine poetiche e filosofiche che hanno indagato a fondo la crisi della civiltà. Pure Bjørnson, come Lessing o Nietzsche, ha appreso dalla parrocchia luterana un’ esigenza di rigore morale che spinge ad analizzare spietatamente lo stesso Cristianesimo e le sue Chiese, contestandole in nome di un bisogno di verità assorbito dal Cristianesimo stesso. Come altri, Bjørnson ha denunciato il rigido dogmatismo della Chiesa luterana in nome di un più libero cristianesimo del cuore. Come quella del ben più grande Ibsen, la sua opera vive di una feconda contraddizione tra la rivendicazione della vitalità e una severità morale che se si ribella alle norme convenzionali, pure soffoca, con la sua stessa inflessibilità etica, i desideri e le pulsioni anarchiche della vita. Al Cristianesimo viene imputato di reprimere la vita, ma esso rivela invece, a Bjørnson come a Ibsen, una terribile forza vitale, capace di guardare in faccia la selvaggia demonicità dell’ esistenza e della morte, dell’ eterno e dell’ effimero che entrambi annientano l’ uomo e che il nobile moralismo laico è impari ad affrontare. Il Cristianesimo si rivela affine alla travolgente potenza della natura celebrata e temuta in Al di là delle nostre forze; una smisurata natura nordica, ignara di umanesimo e di misura. Dinanzi ad essa, lo scontro tra l’ uomo di scienza e l’ uomo di fede è una piccola, ma non per ciò meno tragica commedia intellettuale. Con il suo positivismo, Bjørnson è certo più vicino all’ uomo di scienza, ma è l’ uomo di fede, il pastore Sang - al quale egli è ideologicamente avverso - quello più capace di resistere alla distruttiva violenza del vivere. Scienza e fede si contendono vanamente la spiegazione del mistero; alla letteratura, ha scritto Javier Marías, compete raccontare il mistero senza spiegarlo ed è ciò che fa con alta poesia Al di là delle nostre forze. RIPRODUZIONE RISERVATA Magris Claudio Pagina 35 (28 aprile 2010) - Corriere della Sera