Al. T., Corriere della Sera 29/04/2010, 29 aprile 2010
MENIA IL «DURO» E L’EX AMICO «STA FACENDO UNA SCENEGGIATA» – A
metà pomeriggio si informa sulle ultime: «Come sta andando la sceneggiata di Bocchino?». Le dimissioni, dice? «Ma sì, il gioco delle tre carte, il ricatto, come lo vogliamo chiamare?». Comunque lo si voglia chiamare, non si può dire che Roberto Menia, sottosegretario e gigante triestino con una vaga somiglianza con Gerard Depardieu, non parli chiaro. Si delinea un’assemblea del gruppo per valutare le dimissioni di Bocchino da vicecapogruppo finiano. «Bene, vorrà dire che si prenderà atto delle sue dimissioni. Le ha date o faceva finta? E allora se le ha date, è normale che vengano accettate». Nel frattempo in Aula si vota e il centrodestra va sotto di un voto. Menia’ che è in missione e quindi assente giustificato’ non fa in tempo a entrare. A pochi passi da lui, si scatena una minirissa, tutta interna al Pdl.
Ma gli attriti sono anche interni ai finiani, anche se c’è chi accredita la tesi che quella di Menia sia una questione personale: «Ma quale personale, è politica. E poi tra noi quelli infastiditi da Bocchino sono tanti». Tanti quanti? «Tanti, tanti, non mi faccia dire di più». Di passaggio, però, salta fuori una dichiarazione di Edmondo Cirielli, secondo il quale «Bocchino è inviso al 90 per cento dei finiani»: «Ho riso di gusto quando l’ho letta».
Menia vs Bocchino è ormai un classico degli ultimi tempi. Eppure c’è stato un tempo che i due andavano d’amore e d’accordo, o quasi. Nell’88 Menia diventa direttore del Fuan, i giovani universitari dell’Msi, roccaforte di Gianfranco Fini, appena nominato segretario del partito. Bocchino è uno dei collaboratori più stretti di Menia. Al punto da vivere nello stesso appartamento. «Per qualche tempo’ racconta il sottosegretario triestino – abbiamo dormito a casa di Gasparri e anche di Fini». Per paura dei rossi? «Macché, perché non avevamo i soldi. Poi io e Italo abbiamo preso un appartamento in due, in viale Vaticano. Lui ci stava tutto il tempo, io facevo il pendolare con Trieste». E com’era all’epoca Bocchino? «Simpatico, sveglio. Anche troppo. Poi è cambiato, ne ho visti tanti cambiare». In che modo? «Una mutazione antropologica. Bisognerebbe provare riconoscenza verso chi ha sputato sangue e sudore, non essere presuntuosi, occuparsi solo del potere, sentirsi come Gesù Cristo». Questione di carattere e temperamento, ma anche e soprattutto di politica: «Ci siamo scontrati ferocemente all’atto dello scioglimento dell’Msi. Io sostenevo che era meglio una federazione, Bocchino mi ascoltava dalla platea ghignando. Ora devo sentirmi lui che mi spiega quello che dicevo io allora». Però Bocchino parla a nome di Fini. «Che non lo sconfessa, lo so. Bocchino fa sempre il ventriloquo di altri, prima lo faceva di Tatarella. Però sta diventando un problema, un ingombro, un peso. E se ne sta accorgendo anche per Fini».
Al. T.