Federico Fubini, Corriere della Sera 29/04/2010, 29 aprile 2010
TUTTI GLI ERRORI DA NON RIPETERE
Ora che il «fallimento» della Grecia è alle porte e l’euro è in bilico, le istituzioni finanziarie mondiali non devono ripetere gli errori americani: il governo Usa non volle salvare la Lehman per non premiarne la gestione irresponsabile e si scatenò la recessione, oggi un mancato intervento in soccorso di Atene può innescare una catastrofe.
Se la reincarnazione rientra fra le superstizioni della finanza, a Jean-Claude Trichet e Dominique Strauss-Kahn ieri sarà corso un brivido lungo la schiena. Un senso di dejà vu deve aver assalito quei due dignitari francesi, numeri uno rispettivamente della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, quando insieme hanno fatto il loro ingresso sotto la volta di cristallo del Bundestag a Berlino.
Si trovavano lì per chiedere denaro per salvare la Grecia e l’euro, ma era come se una regia beffarda li avesse guidati in un perfido remake. Entrambi, in privato, avevano deprecato la gestione del fallimento di Lehman in America un anno e mezzo fa. Ma entrambi ieri hanno rimesso in scena una supplica simile a quella che Henry Paulson e Ben Bernanke presentarono al Congresso di Washington nel settembre del 2008: per l’allora segretario al Tesoro e per il capo della Federal Reserve, si trattava di salvare Wall Street con il sì del Congresso a un pacchetto di aiuti pubblici da 700 miliardi di dollari. Ora Trichet e Strauss-Kahn vogliono convincere il parlamento tedesco a sbloccare un prestito che arriverà, in tutto, a circa 100 miliardi di euro. Paulson e Bernanke fallirono al loro primo tentativo e l’indice Dow Jones reagì crollando di 770 punti in sole due ore.
Per fortuna la storia non sempre si ripete fino all’ultima curva, Trichet e Strauss-Kahn possono ancora centrare il loro obiettivo. Eppure i corsi e ricorsi della storia potrebbero comunque farli riflettere, perché le catastrofi finanziarie americane dei primi dieci anni del secolo rappresentano già una sorta di manuale per l’Europa sugli errori già fatti e quelli assolutamente da evitare.
Il fantasma di Enron e quei dubbi di Eurostat
Chissà che qualcosa del genere non sia passato per la testa a quei funzionari di Eurostat che, nel 2008, sobbalzarono di fronte ai dati sulla Grecia. L’agenzia statistica europea aveva appena ricevuto gli ennesimi valori di bilancio da Atene, ma la loro credibilità non appariva a prova di bomba. Arthur Andersen, il revisore dei conti, pochi anni prima aveva dovuto chiudere per aver certificato i conti falsati della Enron. Né Eurostat né nessun altro organismo europeo hanno mai avuto la stessa responsabilità legale verso la Grecia, ma i tecnici di Lussemburgo non volevano neppure quella politica: al posto dei numeri giunti da Atene, quella volta proposero di lasciare spazi bianchi.
Furono convinti a non farlo, benché la vicenda della Grecia nell’euro a quel punto avesse già conosciuto vari colpi di scena. Nel 2004, al suo arrivo al governo, era stato il premier conservatore Costas Karamanlis a dare il primo scossone: denunciò come il precedente esecutivo socialista di George Papandreou avesse alterato i conti nel 2000 per accelerare l’ingresso di Atene nell’euro. Il deficit allora non era al 2% del prodotto interno lordo, come dichiarato, ma al 4,1%. In realtà il disavanzo non era mai sceso sotto la soglia del 3% richiesta per l’aggancio alla moneta unica. Karamanlis promise allora che avrebbe corretto tutto e la Commissione europea, a cose fatte, rassicurò: «Le autorità greche hanno ampiamente coperto i buchi e lemancanze nel loro sistema statistico – dichiarò il 20 marzo 2005 la portavoce di Bruxelles Amelia Torres ”. Oggi la loro situazione è notevolmente migliorata».
Non tutti ci hanno creduto, benché in pubblico non lo abbiano mai detto. All’Ecofin di Praga nell’aprile di un anno fa iministri finanziari europei rimproverarono a porte chiuse il collega greco Yannis Papathanassiou (governo Karamanlis) perché questi insisteva a prevedere un deficit appena al 3,7%. L’Ecofin gli scrisse, gli ingiunse di fornire dettagli ma Papathanassiou non cedette di un palmo. Solo in giugno dell’anno scorso ammise che, dopotutto, il «rosso» in bilancio sarebbe potuto arrivare fra il 5% e il 6% del pil. Ancora una volta, nessuno a Bruxelles gli credette ma nessuno osò dirlo in pubblico. Il quotidiano olandese Nrc Handelsblad, mai smentito, ha pubblicato un memorandum distribuito il 2 luglio 2009 all’Ecofin dall’allora commissario europeo agli Affari monetari Joaquin Almunia, dal quale emergono tutti i dubbi che esistevano già un anno fa. «Se le tendenze in atto dovessero continuare – si legge – il deficit del governo centrale (greco, ndr) supererà il 10% del pil».
Il precedente Lehman e la logica del salvataggio
Neanche quel documento ebbe effetto, perché né Almunia né alcuno dei ministri dell’Ecofin affrontò il problema. Si limitarono tutti a mostrare sorpresa quando, dopo le elezioni di ottobre, il nuovo governo socialista annunciò che il vero deficit sarebbe stato al 12% del pil (poi rivisto al 12,7%, quindi al 13,6% e infine al 14%). Fra gli obiettivi di un anno fa e i dati reali corre una differenza di circa 30 miliardi di euro. Ma sia l’Ecofin che la Commissione europea hanno lasciato passare un anno prezioso prima di porre rimedio: più della prudenza, ha contato il rispetto della sovranità e la convenzione europea di non criticare mai un governo prima di un’elezione.
Ora che il default è alle porte e l’euro in bilico, Trichet e Strauss-Kahn nel ruolo che fu di Paulson e Bernanke 18 mesi fa, più che il fantasma di Enron pesa quello di Lehman. Allora il Tesoro Usa negò le garanzie necessarie al salvataggio della banca per non premiarne la gestione irresponsabile e incoraggiare altri a imitarla. Ne seguirono interventi pubblici molto più onerosi a favore tutti gli altri gruppi di Wall Street e la recessione globale più grave del dopoguerra.
In quei giorni, dopo aver punito Lehman, Paulson si inginocchiò ai piedi della speaker della Camera Nancy Pelosi per ottenere i fondi e contenere i danni. Trichet spera di non dover fare altrettanto con la cancelliera Angela Merkel.
Federico Fubini