MAURIZIO BETTINI, la Repubblica 29/4/2010, 29 aprile 2010
COS INIZI IL MITO DI ATENE
Siamo nel 1807 e a Londra sono stati appena messi in mostra i marmi del Partenone. Anche Heinrich Füssli, il celebre pittore svizzero, è andato a vederli: «Qvei Grechi erano tèi», esclama di fronte a tanta meraviglia, «qvei Grechi erano tèi!». A dispetto della buffa pronunzia, il commento dell´artista va direttamente al cuore della questione: la Grecia è stata abitata da dèi, non da uomini, quella terra è un luogo sacro all´arte e alla bellezza.
Percy Bisshe Shelley non sarà da meno. Anni dopo, sotto l´impressione dei primi scontri fra Turchi e patrioti greci, egli compone infatti una tragedia dal sintomatico titolo di Hellas: «Tutti noi siamo Greci» scrive nell´introduzione «le nostre leggi, la nostra letteratura, arti, tutto ha le proprie radici in Grecia. Non fosse per la Grecia, noi saremmo ancora selvaggi e idolatri: o quel che è peggio, saremmo caduti in quel miserabile e stagnante stato delle istituzioni in cui versano Cina e Giappone (!). La forma umana e la mente umana giunsero alla perfezione in Grecia».
In quegli anni, dunque, l´Europa viene investita da una vera e propria ondata di filellenismo, o meglio di ellenomania, come è stata talora definita. Il punto è che, nella percezione di poeti, filosofi e scrittori del XIX secolo, i Greci non possono essere considerati "come gli altri": sono diversi, infinitamente superiori, e in quanto tali non possono essere confrontati. Come scriverà altrove lo stesso Shelley, «che cosa c´è che si possa paragonare ai Greci?». Essi erano un popolo di dèi e il divino, per definizione, non ammette confronti.
Più o meno negli stessi anni in cui l´ellenomania trionfava in Europa, però, in Germania vi era stato chi si batteva per mantenere la civiltà greca non solo dentro i confini della storia, ma anche dentro quelli del confronto con gli altri popoli. Christian Gottlob Heyne, professore di antichità classica all´università di Göttingen, non cessò mai di suggerire la via della comparazione fra i Greci delle prime epoche da un lato, e i popoli "selvaggi" dall´altro, come potente strumento per raggiungere il suo principale obiettivo: ossia interpretare la civiltà greca senza imporle i punti di vista della modernità, bensì calandosi il più possibile nei modi di pensare (il genius, lo "spirito") di coloro che l´avevano creata. Ma come si poteva sperare di riconquistare quel genius così disperatamente lontano? Attraverso le testimonianze sui popoli altri, di cui le relazioni dei viaggiatori offrivano ormai una larga documentazione.
Da un lato dunque i Greci come popolo divino, perfetto, incomparabile; dall´altro i Greci caratterizzati da un genius che, per essere compreso, necessita del ricorso alla comparazione con i "primitivi". Sono due modi diametralmente opposti di guardare alla Grecia antica. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di punti di vista ormai remoti, cancellati dal travolgente progresso della modernità. Ma non è così. Queste due opposte immagini dei Greci hanno continuato ad orientare il modo in cui, nel corso del tempo, ci si è accostati ad essi: per alcuni oggetto di ammirazione incondizionata in quanto creatori della filosofia, della tragedia e della democrazia; per altri oggetto di riflessione per l´affinità che i loro culti o le loro credenze presentano con quelle documentate presso altre popolazioni. Da un lato gli inni alla paidéia greca, dall´altro I Greci e l´irrazionale di Eric Robertson Dodds, che del "miracolo ellenico" – candido come i marmi del Partenone – metteva invece in evidenza i lati più oscuri e perturbanti. Proprio come farà, in Italia, Pierpaolo Pasolini con la sua Medea o il suo Edipo re.