SANDRO VIOLA, la Repubblica 28/4/2010, 28 aprile 2010
STALIN, GIOVENTU DI UN DITTATORE
Alla fine del 1913 Stalin fu di nuovo esiliato in Siberia, oltre il Circolo polare artico, in un villaggio che si chiamava Kurejca: otto isbe in tutto, e una settantina di abitanti. La notte, i lupi s´avvicinavano al villaggio. E quando Stalin doveva andare nella latrina di fianco alla sua isba, sparava in aria un colpo di fucile per tenerli lontani. L´esiliato Josif Djugashvili aveva all´epoca 35 anni, e veniva da tre lustri d´attività rivoluzionaria. Incendi di uffici pubblici, battaglie di strada contro i cosacchi a cavallo, furti alle banche per finanziare il partito bolscevico, organizzazione di scioperi, arresti e interrogatori da parte dell´Ochrana (la polizia politica zarista), molti mesi nella prigione di Batumi. E un precedente esilio in Siberia, da cui era presto riuscito a fuggire.
A Kurejca stette per qualche settimana in una stessa isba con Jakov Sverdlov, che sarebbe diventato con la rivoluzione d´ottobre, anche prima di Stalin, uno dei massimi esponenti del partito. Poi - Sverdlov non gli andava a genio - affittò una stanza puzzolente nell´isba della famiglia Pereprygin. E lì, passati pochi giorni, si portò a letto la minore delle orfane Pereprygin, Lijdia, che non aveva ancora compiuto i 14 anni. Vestito di pelli di renna dalla testa ai piedi, di giorno (nei quattro mesi scarsi in cui a Kurejka la notte artica cedeva il passo alla luce del sole) Stalin andava a caccia di pernici nella tundra. E a volte veniva attaccato da un branco di lupi, contro i quali - se s´avvicinavano troppo alla sua slitta - doveva sparare altre fucilate.
In questo suo ultimo libro, Il giovane Stalin (pubblicato da Longanesi nell´eccellente collana storica diretta da Sergio Romano, pagg. 554, euro 29), Simon Sebag Montefiore scrive che «i branchi di lupi - i nemici che accerchiavano perennemente la sua casupola siberiana - entrarono nella psiche del dittatore sovietico. Li disegnava sui documenti durante le riunioni, specialmente verso la fine della vita, mentre orchestrava l´ultima campagna del Terrore contro la cosiddetta congiura dei camici bianchi». Il segno che l´ossessione ormai paranoica dei complotti, una "konspiracija" contro la sua vita e il suo potere, lo portava ad accomunare i sospetti avversari politici a "lupi idrofobi".
La memoria dell´esilio siberiano, durato quattro anni, non lo abbandonò mai. Per l´agitatore bolscevico che dai vent´anni in poi non aveva mai smesso di tramare contro le polizie zariste, contro i ricchi petrolieri di Baku (sequestrandoli, o sequestrandone i figli piccoli, per ottenere un riscatto), e contro i dirigenti menscevichi che egli sospettava lo volessero consegnare all´Ochrana, l´inerzia forzata sulle rive d´uno dei più maestosi fiumi russi, l´Enisej, ghiacciato da ottobre a maggio, rappresentò infatti un castigo durissimo. E per questo, più di trent´anni dopo, ancora incancellabile.
A Kurejka, Stalin studiava un po´ d´inglese e di tedesco, e soprattutto scriveva sul problema delle nazionalità, che sarebbe divenuto il suo primo incarico politico quando entrò, dopo la rivoluzione, nel Politburo del partito. La sera partecipava alle festicciole dei giovani del luogo. Cantava bene (da giovanissimo, a cavallo dei suoi anni di seminario in Georgia, aveva anche guadagnato qualche soldo cantando ai matrimoni), e beveva molta vodka senza ubriacarsi. Intanto era divenuto padre, perché Lijdia aveva partorito un bambino. E quando pochi mesi dopo il bambino morì, Lijdia era a 15 anni di nuovo incinta d´una bambina, uno dei vari figli illegittimi che Stalin si lasciò alle spalle prima di divenire il capo indiscusso della Russia sovietica.
L´esilio al Circolo polare durò sino al ´17, quando le autorità zariste, di fronte alle continue diserzioni dei soldati al fronte, decisero di arruolare tutti gli oppositori inviati al confino. Ma Stalin non finì sotto le armi. Lo Stato zarista si stava disfacendo, nessuno pensava più di controllare cosa facessero gli ex esiliati. E lui raggiunse subito Pietrogrado, dove il governo provvisorio già barcollava sotto i colpi delle masse bolsceviche, e s´installò con gli altri capi del partito allo Smolnij, che era stato il collegio delle ragazze nobili.
Nel partito era conosciuto soprattutto per la sua attività di finanziatore clandestino. Innumerevoli erano state infatti le sue rapine alle banche, culminate nell´attacco del 1907, con bombe e fucileria, alla banca di Tbilisi, che fruttò in valori attuali poco meno di quattro milioni di dollari. Il danaro ricavato dalle rapine e dai sequestri andava interamente alla dirigenza bolscevica, e in parecchi casi nelle stesse mani di Lenin. Quanto a Stalin, egli continuava a condurre una vita misera e sempre gravida di rischi. Una sola volta - tornava da un congresso bolscevico a Londra - gli amici georgiani lo videro ben vestito: «un completo grigio scuro e un bel cappello gli davano un´aria europea che non aveva mai avuto».
Come il suo libro precedente, Gli uomini di Stalin, in cui rievocava le cene notturne al Cremlino negli anni del Terrore - la trivialità dei discorsi e dei lazzi, il grande consumo di alcolici -, anche Il giovane Stalin sorprende il lettore per la novità e abbondanza delle fonti (rinvenute negli archivi di Mosca, San Pietroburgo, Tbilisi, Gori, Baku, Batumi, Berlino, Londra, Parigi) e il talento narrativo dell´autore. Ecco gli anni del seminario di Tbilisi, dove l´adolescente Djugashvili divora i testi marxisti durante le funzioni religiose, la Bibbia sul banco e Marx sulle ginocchia. Gli scontri anche fisici con i monaci, la cacciata dal seminario, i legami con altri adolescenti ribelli, il più ardito e sanguinario dei quali, Kamo, è uno psicopatico, un pazzo. Poi, man mano, la vita dell´agitatore politico (in parte I demoni di Dostoevskij, in parte i romanzi di Jack London), che lo porterà nelle file del partito bolscevico aprendogli la strada del potere.
Benché piccolo di statura, il viso butterato dal vaiolo, con un braccio e le due gambe in parte impediti per essere finito sotto un carro da adolescente, Stalin piaceva alle donne. Della sua abilità nel canto, s´è detto: ma Soso, come si faceva chiamare da ventenne Djugashvili, sapeva anche ballare molto bene, scriveva poesie ispirate ai poeti romantici georgiani, e in più aveva l´aura dell´indomabile rivoluzionario. Donne ne ebbe quindi a sazietà. Senza amarne nessuna, tuttavia, salvo nel 1902 la sua prima moglie, Kato Semenovna Svanidze, che «per gli standard georgiani», scrive Sebag Montefiore, «era una donna istruita, emancipata, socialmente superiore a Stalin». E quando questi, decenni più tardi, ne parlò con la figlia Svetlana, disse che Kato «era molto dolce e bellissima, così che sciolse il mio cuore». Alla sua morte nel 1907,infatti,i parenti dovettero trattenere Soso che tentava di buttarsi nella fossa dove i becchini stavano calando la bara di Kato.
Il libro di Sebag Montefiore si ferma al 1917, agli inizi del potere bolscevico, quando si forma la triade Lenin-Trotskij-Stalin. Ma nelle ultime pagine, in forma d´epilogo, ci sono le giornate del tiranno, ormai prossimo alla morte, nella villa in Georgia sulla costa del Mar nero, la residenza che amava di più. Lì, «il vecchio Soso, sfinito da cinquant´anni di cospirazioni, da trenta di governo e cinque di guerra», convocava i suoi anziani amici di Gori e del seminario. Cibo e vini georgiani sui tavoli del giardino, e soprattutto ricordi. «La fede nella violenza, la vendicatività, l´assenza di pietà ed empatia» che avevano marcato l´intera vita di Stalin, sembravano essersi dissolte. Curava le rose, giocava a biliardo, leggeva sulla veranda, stappava le bottiglie di vino all´arrivo degli ospiti. E tentava di ritrovare, conversando con i suoi coetanei, il po´ di buono, di non sanguinario, che c´era stato all´inizio della sua vita.