Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 27/04/2010, 27 aprile 2010
LA MORTE DEL ROMANZO (E DI TUTTO IL RESTO)
Abbiamo vissuto giorni migliori, indubbiamente. Ma che sia morto proprio tutto, è improbabile, anche perché noi siamo qui, fino a prova contraria, abbastanza vivi e abbastanza vegeti, salvo controindicazioni dell’ultim’ora. Questa settimana, per esempio, è morto per l’ennesima volta il romanzo. Ed è inutile che Walter Pedullà ( Il Messaggero, 23 aprile) esprima le sue rimostranze contro questa «bufala eterna»: il romanzo è morto e non se ne parli più. Del resto, a quanto pare, ad aver subìto un colpo mortale è stata la letteratura nel suo insieme, sostituita dalla paraletteratura da classifica, quella «al polistirolo», «abbozzata», «di plastica», secondo le definizioni di Davide Morganti, intervistato da Pietrangelo Buttafuoco ( Il Foglio, 23 aprile). Si è poi esaurito anche il romanzo di genere vero e proprio, che, come avverte, nello stesso servizio, lo scrittore Massimiliano Parente, «deve vedersela con i cazzuti sceneggiatori delle serie televisive». Per Parente è morto, o quasi, persino lo scrittore-scrittore, abbattuto da una nuova categoria, quella dell’«e scrittore»: «giornalista e scrittore», «blogger e scrittore», «opinionista e scrittore»… La morte della critica è ormai fuori discussione: infatti, se Mario Lavagetto nel 2006 aveva scritto un pamphlet intitolato Eutanasia della critica, a quest’ora i suoi funerali devono essere ampiamente avvenuti, come sospetta Alessandro Baricco. Sull’agonia della poesia, se ce ne fosse bisogno, ha scritto parole pressoché definitive Alfonso Berardinelli.
Nel frattempo – nei giorni scorsi’ è stata decretata l’estinzione imminente dei giornali, almeno a giudicare dalle molte onoranze funebri celebrate, a Perugia, in occasione del Festival internazionale di giornalismo. Sempre nella tragica settimana appena trascorsa, in coincidenza con la Giornata mondiale del diritto d’autore voluta dall’Unesco, è risuonato alto il canto del cigno non solo per il diritto d’autore, ma anche (e non potrebbe essere diversamente) per il libro cartaceo, giustiziato dall’e-book, e per la libreria tradizionale, spazzata via dalla vendita online. Con Raimondo Vianello, si sa, è scomparso per sempre un certo tipo di satira: un’eleganza, uno stile, che non vedremo più se non nelle retrospettive nostalgiche che di sicuro verranno. I commentatori più radicali (e tristi) hanno sancito, con l’ultimo «che barba, che noia», il tramonto irrimediabile della comicità.
Se a ciò si aggiungono la morte di Dio e di Marx, la fine (a sua volta decrepita) della storia, la dipartita delle ideologie, il declino della politica, l’agonia del cinema, la decadenza dei costumi e della religione (è vero o no che non c’è più religione?), la scomparsa delle mezze stagioni, che cos’è tutto questo affannarsi che si sente in giro? Se il romanzo è morto, che cosa sono tutti quei volumi nelle librerie (più o meno tradizionali) e nelle classifiche? Se la politica agonizza, che cosa sono tutti questi talk show in cui non si parla d’altro? Se la comicità è naufragata, perché ridiamo tanto? Vuoi vedere che, come sospettò il poeta (ahimé defunto, ovvio) Eugenio Montale, «siamo già morti senza saperlo»? O forse, aveva ragione Woody Allen, ci sentiamo solo poco bene.
Paolo Di Stefano