Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 27/04/2010, 27 aprile 2010
«SCHIAVI A ROSARNO PER DUE EURO L’ORA»
Il reclutamento per la raccolta delle olive, illegale e clandestino, avveniva dalle parti di un presidio delle forze dell’ordine. Senza che nessuno avesse nulla da ridire. Era un imprenditore italiano titolare di un frantoio a caricare i lavoratori immigrati: «Veniva a prendere sia me che altri quattro extracomunitari alle 7 del mattino nei pressi del bar vicino alla caserma di polizia di Rosarno e ci riportava la sera dove ci aveva prelevato, verso le 5 o le 6». Così ha raccontato Abedelaziz Ramli, marocchino di 42 anni, uno dei circa quindici testimoni dell’inchiesta della Procura di Palmi per i quali ora è stato chiesto un permesso di soggiorno in Italia per motivi di giustizia.
Il reclutatore italiano, spiega Ramli, «era a conoscenza che sia io che gli altri quattro non eravamo in regola con il permesso di soggiorno perché ce lo aveva chiesto e quando ha saputo che eravamo irregolari ci ha detto che qualora per strada ci fermava la polizia o i carabinieri dovevamo subito dire che gli avevamo chiesto un passaggio e che non lo conoscevamo».
Lavorare direttamente con gli italiani era già un buon risultato, perché la paga arrivava anche a 30 o 35 euro al giorno. Se invece a reclutare erano i «caporali» – extracomunitari anche loro – il guadagno scendeva a 22 euro. La differenza spettava agli intermediari dello sfruttamento: «Erano loro a pagarci e a trattarci come schiavi e anche peggio – spiega un altro testimone, Amine Jdidi, 23 anni, arrivato da Casablanca ”, perché oltre a lavorare dalla mattina presto fino a tarda sera, a volte per riscuotere quei pochi soldi dobbiamo pregare il caporale che ce li versa a poco la volta, e addirittura a qualcuno sono stati negati».
Sei di questi nordafricani sono stati arrestati ieri, tre sono latitanti, mentre per venti italiani sono stati disposti gli arresti domiciliari. il primo risultato dell’indagine seguita alla «rivolta» dei braccianti stranieri che all’inizio dell’anno ha incendiato Rosarno, conclusasi con l’allontanamento degli immigrati. Ma, dal giorno dopo, il «caporalato» ha ripreso a funzionare e quattro mesi di intercettazioni, eseguite da polizia e carabinieri, hanno fornito il riscontro alle dichiarazioni di testimoni che hanno accettato di parlare con gli investigatori. A parte gli arresti, la guardia di finanza ha sequestrato beni e terreni per un valore di circa 10 milioni di euro, accumulati anche grazie allo sfruttamento del lavoro nero.
«I caporali preferivano reclutare quelli senza permesso di soggiorno – ha raccontato ancora Ramli – perché ogni sopruso che loro commettevano non poteva essere denunciato. La mancanza di permesso è garanzia di impunità del caporale, perché è impossibile che il lavoratore senza permesso di soggiorno vada a denunciare presso le forze dell’ordine».
Ramli dormiva in una delle ex fabbriche sgomberate dopo la rivolta, «dividevo l’alloggio con altre venti persone, che come me erano alla ricerca del lavoro giornaliero nei campi», e l’altro marocchino Jdidi ha spiegato: «Ogni etnia ha un alloggio che divide con i propri connazionali e viene difeso come un vero e proprio territorio che non può essere invaso da altri». Il tariffario del lavoro con gli intermediari è di 25 euro al giorno, a cui bisogna sottrarne 3 che i caporali intascano per il trasporto di andata e ritorno, oppure di 1 euro per ogni cassetta di mandarini raccolta e 40-50 centesimi per ognuna di arance. «Ma i caporali – ha dichiarato Jdidi – anche quando si lavora a cassetta ci rubano i soldi, nel senso che rubano le cassette da noi raccolte e lemettono sul loro conto. Pertanto lavorare a cassetta o lavorare a giornata è la stessa cosa, perché non ci pagano più di 20 o 30 cassette pur raccogliendone il doppio».
Mohamed Baridi, anche lui marocchino, 46 anni, è arrivato a Rosarno a fine dicembre 2009, pochi giorni prima della rivolta. Prima lavorava a Milano, Torino e in altre località del nord. Lui è in regola con il permesso di soggiorno, e dopo i disordini ha continuato a raccogliere arance e mandarini con in tasca un «foglio di assunzione». Il 20 gennaio è caduto da un albero, i caporali l’hanno riportato alla fabbrica abbandonata dove dormiva e i suoi amici hanno chiamato un’ambulanza. All’ospedale hanno certificato sette giorni di prognosi, e subito dopo i caporali pretendevano la restituzione di quella specie di contratto che gli avevano consegnato: «Mi hanno minacciato dicendo che se non glielo ridò non mi danno i soldi che avanzo e non lavorerò più da nessuna parte. Per questa ragione penso che a breve, come starò meglio, andrò via da Rosarno».
Tre di questi «padroni senza legge», come vengono chiamati nell’atto d’accusa dell’ufficio guidato dal procuratore di Palmi Giuseppe Creazzo, sono stati arrestati nelle province di Caserta, Siracusa e Catania, dove stavano svolgendo il loro lavoro di sfruttamento con altre persone, in altre zone. E il capo della squadra mobile di Reggio Calabria Renato Cortese, il poliziotto che arrestò Provenzano, dichiara: «Siamo soddisfatti di aver dato una mano a una comunità di povera gente vessata da questi personaggi».
Giovanni Bianconi