Claudio Sardo, Il Messaggero 27/4/2010, 27 aprile 2010
PREMIER E SENATO FEDERALE, I NODI IRRISOLTI DELLE RIFORME
Di riforme istituzionali si discute ormai da un trentennio. In tempi recenti il nuovo titolo V ha trasformato in senso federale la forma di Stato, la legge elettorale (con premio di maggioranza e liste bloccate) ha creato un «presidenzialismo di fatto» senza contrappesi parlamentari, la prassi ha anche modificato la forma di governo ampliando i poteri dell’esecutivo. Ma per tutti la transizione italiana resta incompiuta. E la difficoltà di definire la base di un nuovo «compromesso costituzionale» è accresciuta dal fatto che negli anni sono stati bruciati tanti modelli e tante ipotesi di lavoro.
Il governo parlamentare rafforzato. Se Silvio Berlusconi volesse davvero cercare un’intesa con l’opposizione, il primo passo dovrebbe essere la rinuncia all’elezione diretta del Capo dello Stato, che pure era stata avanzata con una certa baldanza all’indomani del voto regionale. Pier Luigi Bersani ha bollato quella proposta come «populista». Lo stesso Gianfranco Fini ha posto condizioni - il modello francese comporta una legge elettorale a doppio turno e comprende il rischio di una diarchia tra Capo dello Stato e capo del governo - che Berlusconi però non pare disposto ad accettare. E a ciò si deve aggiungere la contrarietà di Giorgio Napolitano, che sin dal suo discorso alla Camera per il 60esimo della Costituente, ha invitato le forze politiche a muoversi nel solco del sistema parlamentare, apportando correzioni puntuali ed evitando stravolgimenti che richiederebbero l’intera riscrittura della seconda parte della Carta.
Dunque, il perimetro di una possibile intesa va cercato nella forma di governo parlamentare «rafforzata». Formula che, però, da sola vale poco più di una cornice. Perché è vero che c’è un generale consenso sulla necessità di accrescere il primato del presidente del Consiglio nell’esecutivo e i poteri del governo in Parlamento. In fondo la bozza Violante, che tuttora è per il Pd la base di ogni trattativa, si ispira esattamente a questi propositi. Ma il problema è che la bozza Violante viene giudicata insufficiente dai vertici Pdl: non basta che sia previsto il voto di fiducia solo per il premier e non più per l’intero esecutivo, non basta il potere di nomina e revoca dei ministri, non bastano i tempi certi e stretti per i disegni di legge cari al governo. Il Pdl vuole rafforzare anche la legittimazione diretta del primo ministro e consegnarli poi le chiavi della legislatura attraverso il potere di scioglimento delle Camere. Se non si vuole l’elezione diretta del Capo dello Stato, ripete spesso Berlusconi, si elegga direttamente il capo del governo. la versione B del presidenzialismo. Innestato in un regime neo-parlamentare.
Ma, allo stato, è materia di scontro. Agli occhi di Bersani anche la versione B rientra nella «deriva plebiscitaria». In Europa non ci sono sistemi con elezione diretta del premier. Tuttavia a Berlusconi basterebbe blindare la legge elettorale attuale (con premio di maggioranza e nome del candidato sulla scheda) per rivendicare un mandato popolare e modellare la riforma con alcuni istituti tratti dal modello Westminster (il premier capo effettivo della maggioranza parlamentare e dotato del potere di scioglimento delle Camere). La bozza Violante è invece più vicina ai modelli continentali, in particolare a quello tedesco: il primo ministro acquisterebbe indubbiamente maggiore forza, ma il Parlamento non perderebbe autonomia e neppure il potere estremo di sostituire il governo (la preferenza è per la sfiducia costruttiva).
Poteri delle Camere e ruolo dei partiti. Il contrasto, insomma, non sta nella definizione del primato del premier sull’esecutivo e neppure nella necessità di garantire maggiore efficacia e rapidità alle decisioni del governo, bensì nell’attribuzione dei poteri del Parlamento e nella configurazione del sistema dei partiti. Berlusconi non vuole sentir parlare di sfiducia costruttiva (anche se non sarebbe impossibile, in astratto, conciliare un potere di iniziativa del premier per lo scioglimento con il contro-potere di un’eventuale maggioranza parlamentare di resistere e formare un diverso governo). La filosofia di Berlusconi, comunque, è quella di un bipolarismo rigido, che consolidi il suo asse con Bossi e scoraggi la formazione di terzi poli (la stessa offerta di uno «Statuto dell’opposizione» ha questa finalità strategica). Nel Pd stanno crescendo invece le voci a favore di un «bipolarismo diverso», fondato su due partiti alternativi ma che non penalizzi il ruolo delle forze intermedie a vantaggio di quelle estreme. Per questo Bersani ripete che la riforma della legge elettorale è condizione di ogni riforma condivisa. Ma Berlusconi al momento dice no. E, almeno nell’ispirazione di fondo, sa di avere sponde nel Pd, soprattutto in quell’area veltroniana che alzò per prima la bandiera del modello Westminster e che tuttora manifesta ostilità al polo di Centro (e pensare che proprio la Gran Bretagna vive in questi giorni una campagna elettorale tripolare che potrebbe cambiare il suo stesso sistema politico).
I diversi modelli di Senato federale. Si potrebbe dire: se tali sono i contrasti sulla forma di governo, perché non limitare le riforme alle materie su cui c’è un’intesa ormai consolidata, come ad esempio la riduzione del numero dei parlamentari (e il potere di nomina e revoca dei ministri da parte del primo ministro)? La risposta è che sarebbe insensato ritoccare il numero dei parlamentari senza mettere mano alla struttura del bicameralismo e al Senato federale, ormai passaggio necessario per evitare contorsioni e crisi del federalismo. La Lega per prima sa di essere al bivio. O il federalismo assume una compiutezza istituzionale, oppure rischia di fallire lo stesso federalismo fiscale. E non può esserci federalismo senza un nuovo assetto del Parlamento (che a sua volta comporta una modifica della forma di governo). una lunga catena a cui manca sempre qualche anello.
Tutti, ad esempio, concordano sulla necessità di trasformare l’attuale Senato in Senato federale. Ma ciascuno lo intende in modo diverso. Nella bozza Violante il Senato federale è espressione diretta delle autonomie regionali (con senatori eletti in secondo grado). Nell’ultima bozza Calderoli il Senato federale è composto da senatori eletti in concomitanza con le elezioni regionali (dunque, il rinnovo del Senato avverrebbe parzialmente e in tempi diversi). Ancor più che la composizione, comunque, il contrasto riguarda i compiti del Senato. Calderoli li ha dilatati fino al punto di prevedere una sfiducia al governo, che avrebbe tra gli effetti persino lo scioglimento anticipato della Camera. Ma soprattutto nella bozza Calderoli si prevede che il Senato abbia l’ultima parola sulle leggi-quadro che devono ispirare la legislazione regionale. In questo modo le rappresentanze regionali conquisterebbero anche i poteri che il nuovo titolo V riserva allo Stato. C’è poi ancora un altro nodo (irrisolto nelle bozze oggi circolanti come nei progetti del ”98 e del 2006): il nuovo schema bicamerale rischia comunque di tener fuori dal Parlamento la mediazione e l’intesa tra l’esecutivo centrale e gli esecutivi regionali, oggi affidato alla Conferenza Stato-Regioni. Ma se il Senato federale non assumerà questi poteri, vuol dire che resterà in vita una «terza Camera» (con un consistente potere di veto e poca trasparenza nei suoi lavori).
Quando si discute di struttura del bicameralismo e di processo legislativo, le divisioni attraversano più marcatamente gli schieramenti. E non sembra un vantaggio. Peraltro una divisione netta di ruoli tra Camera e Senato, la sola compatibile con lo Stato federale, è stata sempre avversata dai senatori di destra, di centro e di sinistra.
Giustizia: riforma parallela? Infine il capitolo giustizia. Il Pd ripete che è meglio lavorare sulle leggi ordinarie senza toccare la Costituzione. Ma per Berlusconi inserire la giustizia tra le grandi riforme è un punto di principio. In realtà la diffidenza del Pd nasce da valutazioni strettamente politiche: il timore che Berlusconi possa forzare e poi nascondere gli strappi nel contesto più ampio della riforma (per questo la stessa Lega ha suggerito di far viaggiare il capitolo della giustizia su un binario parallelo). C’è però un nesso innegabile tra riforma della giustizia, riforma del Parlamento, forma di governo. Un riequilibrio dei poteri (che potrebbe passare da una riforma del Csm e/o della sua giurisdizione domestica) non può infatti essere scollegato da un potenziamento del Parlamento, anche come decisore ultimo dei governi. Rafforzare solo la legittimazione e i poteri del premier, a scapito sia del Parlamento che dell’autonomia della magistratura, darebbe anche alla riforma della giustizia un segno assai diverso.