Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 26/04/2010, 26 aprile 2010
E BETTIZA CONFESSO’: VOTO LEGA L’EREDITA’ ASBURGICA E’ SUA
«Se sogno la mia balia Mare, sogno in serbocroato. Se sogno le Poljakove, madre e figlia, che mi ospitarono a Mosca quando Giulio De Benedetti mi licenziò dalla Stampa e mi tolse casa, sogno in russo. Se sogno Simone Veil, cui fui molto vicino all’Europarlamento, sogno in francese. Ma se sogno mio padre, sogno in dialetto veneto».
Enzo Bettiza ricorre a una metafora onirica per confidare al Corriere una cosa che non aveva mai detto: il giornalista più raffinato d’Italia, lo scrittore mitteleuropeo, vota Lega. La Lega di Bossi, con il Carroccio, Alberto da Giussano, lo spadone e tutto. «Ma Pontida è un mito immaginario, come i druidi, i celti e le bevute dell’acqua del Po. La Lega non è figlia della battaglia di Legnano, condotta dai lombardi contro un imperatore germanico. Al contrario: la Lega discende dal Lombardo-Veneto asburgico. Gli antenati di Bossi sono Maria Teresa, Giuseppe II, il lato umano di Radetzky. Il suo antecedente è la buona amministrazione austriaca».
«So che la Lega è stata considerata a lungo buzzurra e folkloristica. E in parte lo era, per necessità politica, per distanziarsi in maniera popolaresca e dialettale dal Sud, per marcare un’identità culturale e antropologica che, spinta all’iperbole, diventava differenziazione etnica. Ma eravamo ai primordi: Roma ladrona, la secessione, il separatismo. Una strada percorsa da altri gruppi regionali in Europa: baschi, catalani, irlandesi, prima ancora i sudtirolesi e anche i bavaresi, che si ritengono uno Stato nello Stato, come il Texas negli Usa. in questa fase rozza, romantica, pittoresca che la Lega si balocca con riti inventati, zodiacali. Ora la Lega è un partito serio, solidificato. La sua grande forza è la correttezza amministrativa, la cura del Rathaus, il Comune. Detesto la parola "territorio", mi fa venire in mente la mafia. Non esistono partiti territoriali né partiti cosmici. Ora la Lega si insedia a Bologna, penetra negli Appennini, schiera in Toscana un’avanguardia che evoca il Granducato. un partito nazionale, costruito su grandi temi come l’immigrazione e la difesa delle tasse lombarde, venete, piemontesi. Non a caso i due migliori ministri sono Maroni, uomo della Lega, e Tremonti, che alla Lega è molto vicino. E presto nascerà anche la Lega del Sud».
Dice Bettiza di non essere spaventato dal rischio di una disgregazione del paese. «L’Italia era abituata a essere divisa. Una splendida divisione, da cui viene la sua grandezza. Ducati, comuni, persino un impero: Venezia era la Gran Bretagna del Mediterraneo. Se Mantova non fosse stata una capitale non avremmo Mantegna e la Camera degli Sposi, se non lo fosse stata Ferrara non ci sarebbe il Palazzo dei Diamanti».
«Il carisma di Bossi, sempre esistito per il suo popolo, si è molto rafforzato dopo la malattia. Ha assunto una ruvidezza un po’ immobile e statuaria, una loquela condensata e tagliata che fa delle sue apparizioni in pubblico un’icona popolare (Bettiza dice ìcona, con l’accento sulla ”i”, alla greca). Non farà il sindaco di Milano, perché non ha la salute né l’interesse a sobbarcarsi il lavoro e le arrabbiature di un sindaco. Il piccolo de Gaulle popolaresco padano che diventa podestà: no, non lo vedo. Bossi ha un grandissimo fiuto politico. Sa bene dove va il boccino e fin dove lo può spingere. Non è certo lui che aizza Berlusconi, anzi, quando lui esagera con la sua attitudine megalomanica è Bossi a tirarlo per la manica, a esercitare una pressione sedativa. evidente che il dopo-Cavaliere è la Lega».
Come finirà Berlusconi? «Berlusconi durerà. Non so se realizzerà il sogno di salire al Quirinale eletto dal popolo. Ma durerà, perché non c’è nessuno nel partito pronto a sostituirlo. Non vedo elezioni anticipate: tutti hanno paura, molti anche di perdere l’indennità. Non vedo grandi prospettive neppure per Fini, uomo di partito rimasto senza partito: resterà nel Pdl solo perché non ne ha un altro. Al centro non nascerà il "partito della nazione", ma un partitino cattolico con Casini, Rutelli e Pisanu, satellite ora del Pdl, in futuro della Lega che tanto contesta». E la sinistra? «Il vero leader, D’Alema, è offuscato. Vendola è fenomeno folkloristico e provinciale. Bersani mi pare all’ultimo giro. Rappresenta lo stadio finale del comunismo emiliano; e, come nota da vecchio animale comunista Giuliano Ferrara, nel Pci mai si sarebbero sognati di affidare la leadership agli emiliani. Bravi sindaci, generosi cassieri; ma i capi del Pci dovevano essere nati nel Regno di Sardegna, o nelle grandi famiglie liberali napoletane. La sinistra paga l’errore mortale di aver dato la caccia a un grande uomo di sinistra come Bettino Craxi. Berlusconi è la nemesi storica di Craxi». Che cos’hanno in comune? «Entrambi hanno fatto crescere alla loro ombra molti uomini da nulla, che a Craxi sono stati fatali. Berlusconi si è salvato perché ha armi che Craxi non aveva. Ha impresso una svolta storica a un’Italia terrorizzata da Mani Pulite; ma l’ha impressa con metodi stravaganti per un paese sottilmente articolato sul piano politico. Il suo carisma sta nel suo stile depoliticizzato: è quel che piace alla gente, ma è anche il suo limite. Le élites lo detestano, i radical-chic vedono in lui un radical-kitsch; ma è proprio per il kitsch, per il suo coté brianzolo, che l’Italia del week-end fuori porta si riconosce in lui».
Bettiza ha una vicenda in comune con Berlusconi, che nel dicembre 1996 gli offrì la direzione del Giornale: rifiutata. Perché? «Ho conosciuto Berlusconi negli anni in cui salvò il Giornale abbandonato da Cefis e da Petrilli. Aveva un’adorazione speciale per Montanelli e molta simpatia per me, una volta in tv raccontò di indossare un impermeabile copiato dai miei. Come uomo d’affari era di un dinamismo eccezionale, e non individuava mai con chiarezza i limiti tra dire il vero e il non vero: come adesso, quando dice che venderà il Giornale, mentre non ci pensa neppure. Quando mi offrì la direzione, per prima cosa mi consultai con Montanelli: avevamo appena fatto la pace dopo che non ci eravamo parlati per tredici anni, non volevo perderlo di nuovo. Indro mi consigliò di accettare. Con Berlusconi ne parlammo in una cena ad Arcore. C’erano Letta, Confalonieri, Massari che era l’amministratore, Biazzi Vergani e Belpietro, che avrebbe dovuto essere il mio condirettore o vicedirettore, a garanzia del lato popolaresco e digrignante: dopo l’innegabile successo della direzione Feltri, c’era il timore che io facessi un giornale troppo elitario. Proposi di far scrivere il primo fondo a Montanelli. Letta disse subito di sì. Berlusconi rimase in silenzio, ma il suo istinto di venditore ambulante lo induceva ad accettare, per pure ragioni pubblicitarie. Tutti gli altri si opposero».
«Il giorno dopo ci vedemmo a pranzo con Belpietro da Savini. Gli esposi il mio programma, a cominciare dal ritorno di Francesco Damato e di François Fejto, che aveva portato al Giornale l’intellighentsia liberale parigina: Aron, Ionesco, Morin, Furet. Belpietro mi interruppe, spiegandomi che lui non sarebbe stato il mio vice ma direttore come me, sia pure non responsabile. A me le querele, a lui il potere, per conto di Berlusconi. Ovviamente, rinunciai. Il Cavaliere telefonò per rilanciare; e offriva davvero un sacco di soldi. Ma con Montanelli e Piovene avevo cofondato il Giornale nell’alveo del Mondo di Pannunzio e di Tempo presente di Chiaromonte. Non avrei mai potuto fare un foglio sotto padrone».
Aldo Cazzullo