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 2010  aprile 26 Lunedì calendario

IL GIRO D’ITALIA DI TASSE E TARIFFE

Venezia e Siena sono i comuni capoluogo più «ricchi» d’Italia, Enna, Villacidro e Agrigento i più poveri. «Ricchezza» relativa, per carità, in un panorama che vede tutti i sindaci alle prese con i tagli di risorse e le richieste progressive del patto di stabilità.
Le differenze, comunque, ci sono, e sono imponenti. Si tratta di numeri cruciali, perché offrono la base numerica per i primi calcoli su costi e fabbisogni standard che i tecnici al lavoro sul federalismo fiscale dovranno costruire per poter scriverei decreti attuativi.
I dati sulle entrate, riportati nelle prime tre tabelle qui sotto, si basano sulla capacità di generare entrate proprie, cioè diverse dai trasferimenti statali o regionali, dai prestiti e dalle alienazioni una tantum. I pilastri di questa ricchezza sono tasse e tariffe, che alimentano i primi due titoli dei consuntivi 2008 appena resi dal ministero dell’Interno.
A spingere i bilanci di Venezia è prima di tutto la fortuna; il casinò e i tributi speciali hanno staccato a Ca’ Farsetti nel 2008 un assegno da 185 milioni di euro, che dà al capoluogo veneto un vantaggio competitivo invidiato da molti sindaci, come dimostrano le spinte periodiche a moltiplicare le case da gioco qua e là per il paese. Con il risultato che abitare a Venezia non è semplicissimo, ma oltre al fascino indiscutibile regala anche la consolazione dell’Irpef comunale ancora a zero. Caratteristica questa che Venezia condivide con Brescia e Milano, anche loro ai primissimi posti del «benessere» municipale. Nei territori più ricchi, naturalmente, è più facile trovare vie per alimentare le casse locali senza passare dalle richieste dirette sul reddito degli abitanti, anche se l’addio all’Ici sull’abitazione principale e la frenata delle costruzioni, che per i comuni si traducono in soldi sotto forma di oneri di urbanizzazione, rendono oggi più complicata la partita.
A Brescia la carta vincente sono gli utili macinati dalle società, che nel 2008 hanno girato a Piazza della Loggia 84 milioni di euro (il doppio dell’Ici sopravvissuta alle nuove norme, per farsi un’idea), e anche a Milano i risultati delle aziende (105 milioni) offrono un ottimo supporto insieme ai servizi pubblici (253 milioni)e ai proventi che si ricavano dai beni dell’ente ( 129 milioni). A Siena, invece, il socialismo municipale non dà frutti (in bilancio sono iscritte briciole, 168mila euro), e la parte del leone è svolta da servizi pubblici e proventi diversi. In molte città, soprattutto nel Sud come ha rilevato la Corte dei conti, le partecipate producono invece perdite, ma la contabilità finanziaria degli enti locali evita elegantemente di mostrare i numeri.
In vetta alla classifica si incontra anche Roma, ma il rebus dei conti della Capitale merita un discorso a parte. Per ripianare il mega-debito spuntato due anni fa, i bilanci del Campidoglio sono stati divisi in due: la gestione ordinaria, che compare nei certificati consuntivi, e quella commissariale, che dovrà impegnarsi per tornare a riva superando il mare del passivo. Questo spiega prima di tutto perché la Capitale non primeggi nella graduatoria del debito - guidata da Torinoe Milano- che è stato accollato al canale straordinario della contabilità, ma cambia i conti anche nella colonna delle entrate; tra queste sono infatti contabilizzati circa 2 miliardi di crediti che la gestione ordinaria vanta da quella commissariale, figli del buco aperto (prima dell’aprile 2008) dall’utilizzo delle entrate vincolate per finanziare spese correnti ordinarie, cioè la pratica che ha fatto saltare i conti. Togliendo questi crediti, futuribili, e calcolando i circa 600 milioni di tariffa ambientale che non entra nei consuntivi capitolini perché la Tia è esternalizzata, le entrate proprie di Roma si collocano intorno ai 950 euro a cittadino, qualche spicciolo sopra i livelli milanesi. G.Tr. • I NODI AL PETTINE DEL FEDERALISMO - Bisogna anche sapere che Milano, a differenza di altri comuni, può contare sui dividendi delle proprie società partecipate per finanziarsi, e ha pertanto deliberatamente mantenuto basse le aliquote dell’Ici e non ha mai introdotto l’addizionale comunale sull’Irpef, diversamente dalla maggior parte delle altre città italiane.
Altri dati sono forse più indicativi. Per esempio, risulta che Torino e Milano sono in termini procapite le città più indebitate (un retaggio probabilmente rispettivamente delle olimpiadi e dell’Expo),più di Catania e Genova che le seguono immediatamente dopo nella classifica. Ma mentreTorinoeMilanosicollo-canorispettivamente al7?e al 12? posto per entrate complessive, Catania e Genova sono rispettivamenteal30 ?eal66?posto,dun-queconbendiversacapacitàdifi-nanziareilpropriodebito.
Ancora, a differenza di quanto molti danno per scontato, la spesa procapite per il personale dei comuni è tendenzialmente più elevata nel Centro-Nord piuttosto che al Sud del paese, a differenza della spesa delle amministrazioni pubbliche statali, che invece vedono una concentrazione più forte nel Mezzogiorno. Così, è a Siena e a Trento che la spesa procapite per il personale è più elevata, mentre Catania, la prima grande città meridionale in questa classifica, sicollocasoloal10?posto, allo stesso livello di Milano in termini di spesa complessiva. Ma naturalmente, mentre la spesa per il personale di Siena rappresenta soltanto il 40% delle proprie entrate complessive, quella di Catania raggiunge il 70%, dunque introducendo ben altra rigidità nel bilancio.
Cosa ci dice tutto questo per il federalismo annunciato? Primo, che come l’esempio di Milano be-ne illustra, bisogna fare molta attenzione a utilizzare e interpretare i numeri. I dati di bilancio sono utili, ma senza informazioni dettagliate sui comportamenti di entrata e di spesa dei comuni servono a ben poco, ed è difficile costruirvi sopra sistemi adeguati di perequazione e finanziamento. In particolare, sappiamo in realtà poco sui livelli e sulla qualità di servizi comunali offerti in corrispondenza dei dati di spesa riportati nelle tabelle. Gli indicatori quantitativi e qualitativi riportati nei quadri dei bilanci comunali sono a volte poco affidabili, e questo è un problema, perché la perequazione dovrebbe servire per uguagliare i livelli di offerta dei servizi, non i livelli di spesa tra comuni. Secondo, che anche limitandosi come in questo caso alle solo città capoluogo, esistono enormi differenze tra i comuni sulla composizione delle entrate e della spesa, che vanno ben intepretate.
Queste due osservazioni dovrebbero suggerire al governo e alla commissione tecnica che se ne sta occupando, di adottare un approccio molto ”soft”nell’interpretare i dettami della legge delega sul federalismo fiscale. Pretendere di definire costi standard per ciascun servizio fondamentale offerto dagli 8.000 comuni italiani con questi dati, come implicherebbe un’interpretazione letterale della delega, è impresa praticamente impossibile. Meglio limitarsi a indicare livelli di perequazione per tipologie di dimensioni dei comuni legati alla spesa procapite complessiva, e caso mai limitare l’analisi dei costi standard a pochi servizi considerati particolarmente importanti per la collettività nazionale e su cui si possa rapidamente e ragionevolmente raccogliere informazioni attendibili sulla qualità e quantità dei servizi offerti. • INVESTIMENTI A DUE VELOCIT - Gli investimenti locali brillano a Ravenna, l’unicacittà di una regione a statuto ordinario in grado di avvicinare i primati di Trento e Tortolì, quest’ultima avvantaggiata però nel calcolo pro capite dalle piccole dimensioni. Nella partita delle metropoli Roma batte Firenze e stacca Milano e Torino, con il capoluogo piemontese che arretra dietro a Napoli dopo gli anni d’oro che hanno preparato le Olimpiadi invernali del 2006.
Nelle parti alte della graduatoria, con l’unica eccezione di Salerno al sesto posto, latitano le città del Mezzogiorno, che si addensano invece nelle posizioni di fondo con livelli sideralmente lontani rispetto al Nord (e alla media nazionale). Il fondo si incontra in Sicilia: Palermo, per esempio, ha limitato gli investimenti alla cifra quasi simbolica di 26 euro per abitante, Cataniae Caltanissetta viaggiano poco sopra i 60 euro mentre Enna e Messina superano appena i 70, contro gli 800-1.000 euro a testa delle migliori e i 300-500 euro investiti dal gruppone dei mediani.
I dati sulla spesa "buona" degli enti locali che si traggono dai certificati consuntivi 2008, appena resi disponibili dal dipartimento per gli affari interni e territoriali del ministero dell’Interno, confermano la doppia velocità che il federalismo fiscale in preparazione dovrà essere in grado di rilevare e, se possibile, attenuare; ma spiegano anche in modo chiaro la geografia delle lamentazioni sul patto di stabilità, che hanno visto i sindaci del centro-nord unirsi nella protesta a prescindere dalle casacche politiche, fino all’ultima (per ora) manifestazione in Piazza San Babila a Milano di venti giorni fa. Il motivo è presto detto: i vincoli del patto registrano i pagamenti in conto capitale, e quindi frenano soprattutto chi negli ultimi anni è stato più attivo nel programmare nuovi investimenti.
Molti degli impegni del 2008, su cui si basano le tabelle in questa pagina, si sono tradotti in pagamenti l’anno scorso e quest’anno, proprio quando le briglie del patto hanno iniziatoa farsi sentire in maniera più drastica. I comuni più pigri, e più a secco di risorse da impegnare per gli investimenti, se ne sono accorti poco o per nulla; mentre l’idea di colpire fin dall’inizio gli atti di spesa, imponendo ai funzionari di verificare prima se tutti i pagamenti successivi rispetteranno il patto, oltre a colpire la tempestività nell’onorare le fatture rischia di azzoppare ulteriormente anche i programmi d’investimento.
I pasti gratis, del resto, non esistono, e la medaglia degli investimenti offre ai comuni anche l’al-tra faccia, quella dei debiti. Il passivo, come ha mostrato l’analisi dei rating dei conti comunali realizzata da AidaPa per il Sole 24 Ore due settimane fa (pubblicata sul giornale del 12 aprile), getta ombre pesanti sui bilanci di molte grandi città, e i nuovi dati dei consuntivi 2008 confermano il problema. Il rosso record abita a Torino, dove su ogni cittadino (bambini compresi) grava un debito comunale di 3.450 euro, senza alcun arretramento significativo rispetto all’anno prima, mentre a Milano il passivo avanza ancora e raggiunge i 2.938 euro ad abitante. In valore assoluto si tratta di più di 3,8 miliardi di euro, 1,6 dei quali "coperti" dai derivati che hanno portato davanti al giudice quattro banche internazionali e l’ex direttore generale di Palazzo Marino (la prima udienza è in calendario il 6 maggio). Si spiega così la fatica che Palazzo Marino ha dovuto affrontare per poter accendere altri 400 milioni di mutuo per le metropolitane, senza nemmeno essere graziata da una deroga al patto di stabilità per i «grandi eventi». Il debito, comunque, si trasforma da problema a patologia grave quando i suoi picchi non si accompagnano a grandi sforzi negli investimenti; i catanesi, per esempio, difficilmente hanno potuto apprezzare la contropartita di un debito comunale quinto in Italia (650 milioni, 2.113 ad abitante). Gianni Trovati