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 2010  aprile 25 Domenica calendario

SE LA POESIA IMPRIGIONATA - I

libri scritti per insegnare come si legge la poesia somigliano un po’ ai corsi di educazione sessuale di moda decenni fa. Si ascolta la lezione e si impara che l’anatomia e la fisiologia sono importanti. Poi però ci vuole l’amore, perché l’amore crea reciprocità, dà al piacere un fondamento morale e lo migliora, ci fa uscire dall’io egoistico e ci apre generosamente all’altro.
Nel saggio L’arte di leggere la poesia del famoso critico americano Harold Bloom,
mi sembra che il procedimento sia analogo. Vengono riportati una serie di testi dei maggiori poeti inglesi e americani; si spreme il significato di alcune parole che rimandano da un poeta a uno precedente; ma poi, o meglio fin dall’inizio,si precisa che quei testi sono "superbi" e sull’insieme si fa piovere dall’alto la luce costante della grandezza. Ovviamente (non è la prima volta che Bloom lo fa notare) Shakespeare è il più grande di tutti, padre e madre della poesia inglese e americana ( le sole che il critico prende qui in considerazione) nonché centro del Canone. Accanto a lui ci sono anzitutto Milton, Blake, Shelley e Keats, Whitman e Dickinson, Stevens e Hart Crane. Poeti visionari e stile sublime sono ciò che attira di più il critico. Dopo il suo libro sul Canone occidentale,
uscito nel 1994, Bloom è stato preso da una crescente mania di grandezza, la parola "grandezza" viene ripetuta in continuazione. La sola cosa che gli appare degna di essere insegnata è la grandezza degli autori grandi e il modo di misurarla.
Se questo programma restasse più implicito, sarebbe un vantaggio. Non si leggono né si studiano gli autori solo perché sono grandi (anche se può succedere), ma quando se ne ha bisogno per capire il presente o per evadere. Quale sia per esempio la grandezza dei contemporanei non è mai del tutto chiaro: le controversie in proposito sono inesauribili. L’idea di grandezza è perciò il tipico contrassegno del critico retrospettivo, o tradizionalista, o accademico. Ma chi si dedica solo ai classici e non è in grado di concepire valutazioni argomentate sulla letteratura contemporanea, più che un critico è uno studioso. Preferisce non correre rischi e non ha bisogno della letteratura per aiutare se stesso a pensare. sui contemporanei che le capacità di un critico vengono messe alla prova. Così come sono i contemporanei (in senso lato gli scrittori degli ultimi decenni) che ci spingono a rileggere certi classici piuttosto che altri, modificando l’assetto della tradizione o creandone una diversa.
Quanto alla grandezza, la letteratura è una trama mobile le cui maglie si allargano e si stringono nel corso del tempo. Le quotazioni di un autore, anche di un classico, variano di continuo. Il significato di un’opera, almeno al cinquanta per cento, è stabilito dall’uso che ne facciamo. Kafka e Proust sono grandi: ma dal momento che sono poco letti e che nessuno scrittore di oggi (a parte i critici) impara da essi, la loro grandezza risulta diminuita.
Tornando a Bloom, ci si può chiedere se la sua arte di leggere la poesia debba precedere l’atto e l’abitudine di leggerla, debba fondare la lettura, o rifondarla, o sostituirla. Credo che la domanda sia legittima. Da tempo la poesia, più che essere una categoria di testi di cui i lettori fanno libero uso, è un valore ideale e nominale, un dovere scolastico, o viceversa, fuori della scuola, un fantasma della libertà creativa inventato da un’epoca che esalta la creatività come un diritto.
L’arte di leggere la poesia è certamente in declino, se nonè già sparita: e questo è dimostrato dalla scarsa competenza delle scelte editoriali e dalla cattiva qualità della maggior parte dei testi poetici che vengono pubblicati. Attualmente la critica di poesia è scaduta fino a diventare un genere cerimoniale e di conventicola, una forma di autoincoraggiamento che la comunità dei poeti (cinquecento o cinquemila) rivolge a se stessa. Le eccezioni sono rare. Un esempio è l’Annuario di poesia
fondato da Giorgio Manacorda all’inizio degli anni Novanta, pubblicato prima da Castelvecchi, ora da Gaffi e diretto dallo stesso fondatore e da Paolo Febbraro. Ma intorno a pubblicazioni come queste regna un rigoroso silenzio. Quando alla descrizione testuale si unisce una valutazione critica senza reticenze, succede di regola che il popolo dei poeti si offenda, covi risentimento e giuri vendetta. Non sarà un caso se Giorgio Manacorda ha sempre avuto difficoltà a trovare un editore per i suoi libri di versi. quasi il solo, tra i poeti, che per anni abbia osato giudicare senza complimenti molti suoi colleghi, e queste cose si pagano.
La qualità della lettura influisce sulla qualità della scrittura. La poesia è un artigianato che si impara sia mettendosi a scrivere esercitando un sufficiente grado di autocritica, sia leggendo e rileggendo, memorizzando o traducendo una certa quantità di poeti del passato. Bloom osserva giustamente che la poesia è il genere letterario più influenzato dalla memoria e dalla tradizione: «La forza poetica potrebbe essere definita fusione di pensiero e ricordo (...). Il pensiero letterario si basa dunque sulla memoria letteraria ».
Ma oggi si ha l’impressione che troppi autori partano da zero, o solo da se stessi. Un segnale in senso contrario è stato il cosiddetto «neometricismo», che però solo in pochissimi risponde a una vera necessità espressiva. Per il resto si tratta, mi pare, di una moda come un’altra, che oggi sostituisce mode precedenti: come il verso (troppo) libero, l’asintattismo, lo svuotamento semantico, l’associazione libera inconscia e l’automatismo degli accostamenti verbali.
 difficile che Harold Bloom riesca a insegnare la sua «arte di leggere la poesia» a qualcuno che non sia un dottorando o un aspirante poeta. Anche in quest’ultimo caso troverebbe difficoltà. I poeti giovani di solito sono refrattari, e i migliori trovano da sé il modo per imparare quello che serve loro. L’arte di leggere poesia si impara leggendo poeti antichi e moderni spinti da qualche passione naturale o perversa. Aggiungerei che per essere buoni lettori di poesia non è male esserne un po’ nauseati. Essere esigenti, non bulimici, né troppo tolleranti. La poesia è un artigianato verbale per l’incremento dell’intelligenza, una serie di giochi che rendono eccitante e divertente dire la verità, o immaginarne una nuova, o vanificare la pretesa di possederla. Il nemico peggiore della poesiaè la poeticità e l’amore indiscriminato per la poesia in sé, per la poesia che si nutre dell’idea di poesia. sempre utile, credo, la provocazione lanciata da Witold Gombrowicz in Contro
i poeti (1947). Dopo aver detto che «i versi non piacciono quasi a nessuno e che il mondo della poesia in versi è un mondo fittizio e falso» (sfidando chi li scrive a dimostrare il contrario) Gombrowicz precisò che la poesia non gli piaceva «per la stessa ragione per la quale non mi piace lo zucchero puro. Lo zucchero è gradevole se preso insieme al caffè, ma nessuno si mangerebbe un piatto di zucchero: sarebbe eccessivo. l’eccesso ciò che stanca nella poesia: eccesso di poesia, eccesso di parole poetiche, eccesso di metafore, eccesso di nobiltà, eccesso di depurazione e di condensazione, che assimilano i versi a un prodotto chimico». Harold Bloom, «L’arte di leggere la poesia», Rizzoli, Milano, pagg. 110