ELENA LISA, La Stampa 26/4/2010, pagina 9, 26 aprile 2010
L’ITALIA DEI PAZZI ARMATI
«Pensino pure che voglio rinchiudere i pazzi e buttare via la chiave. E dicano che sono una reazionaria. In questo Paese le cose vanno così: per anni si lasciano questioni in balia della politica e poi non si risolve niente». Maria Luisa Zardini è il presidente dell’Arap, l’Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica, e madre di una donna con gravi disturbi mentali. «Perciò parlo - dice - perché so che cosa significa convivere con la follia di chi ami. In tutte le sue forme: dall’autolesionismo alla violenza sugli altri, anche con l’uso delle armi». Poi, lapidaria, aggiunge: «La legge Basaglia va rivista. Pensare il contrario, specialmente davanti agli ultimi fatti di cronaca, dimostra solo un’ostinazione ideologica».
Alcuni mesi fa a Villa d’Adda, vicino a Bergamo, un uomo di 48 anni, dopo aver attirato con una scusa il sindaco a casa sua, l’ha tenuto in ostaggio per ore. Prima di liberarlo gli ha gettato acido muriatico in faccia. Poche settimane prima aveva sequestrato i figli minacciando di far saltare in aria l’appartamento. L’8 gennaio, a Luzzara, in Emilia, un giovane di 22 anni con disturbi mentali ha colpito con un coltello da macellaio un karateka di 43 anni. Quando i carabinieri gli hanno chiesto perché l’avesse fatto ha risposto che non c’era un motivo: la vittima l’aveva scelta a caso. In febbraio a Lucera, nel Foggiano, un uomo di 35 anni ha tenuto in ostaggio una ragazzina: diceva di voler parlare con Alessandra Mussolini. Nel 2007 aveva sequestrato una donna incinta, quella volta chiedeva di parlare con Rosy Bindi.
«Attenzione a non dare il via a una caccia alle streghe - dice Cristina Colombo, specialista in Psicopatologia forense e criminologia al San Raffaele di Milano - i dati nazionali dicono che la maggior parte dei delitti è commessa da persone "normali" con moventi specifici che niente hanno a che fare con la follia. Al primo posto ci sono i soldi, segue il sesso. Mi rendo conto della preoccupazione crescente, ma mi sento di rassicurare».
Rassicurare chi crede che i crimini compiuti in preda ai raptus avrebbero potuto essere evitati con una riforma della legge 180, quella che impedisce ricoveri coatti e terapie forzate. Una norma del 1978, da molti definita illuminata, che ha preso il nome dal promotore, lo psichiatra triestino Franco Basaglia. Istituì i Centri d’igiene mentale e abolì, di fatto, i manicomi, in favore di un trattamento più umano dei malati. L’ipotesi di riformarla, ora, divide.
I contrari, come il presidente di Psichiatria Democratica, Rocco Canosa, sostengono che «rinchiudere i malati di mente è eticamente inaccettabile. Meglio potenziare i Centri, incaricati dalla legge di occuparsi dei pazienti ma che in molti casi non funzionano come dovrebbero. Ovvio che per farlo servono investimenti». Secondo l’Associazione italiana psichiatri, mentre in Europa la quota media della spesa sanitaria destinata alla psichiatria supera il 7%, in Italia raggiunge a stento il 5%. Tra i favorevoli a una revisione della legge Basaglia ci sono anche nomi illustri della psichiatria.
Oggi il ricovero è obbligatorio solo se si è in evidente stato di alterazione mentale - che può anche essere procurato da alcol o droghe - e per calmarsi si ha bisogno di cure, ma le si rifiuta. Allora il medico, d’accordo con un collega e con l’avallo del sindaco, può procedere con il Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, che salvo rari casi dura al massimo 7 giorni. Per la Società italiana di epidemiologia psichiatrica, però, mancano gli specialisti. Per questo, secondo un studio del 2008, il 69% dei pazienti viene visitato in media 9 volte l’anno, il 70% curato senza appoggio di medici e senza seguire le linee guida, e tra i familiari dei malati, il 62% ottiene supporto psicologico meno di 5 volte l’anno. «Solo durante il Tso mia figlia schizofrenica prende le pastiglie - denuncia Angela, mamma di Brescia, all’associazione di Maria Luisa Zardini - a casa lei non vuole curarsi. E diventa aggressiva. Aiutatemi, non so più che fare».