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 2010  aprile 26 Lunedì calendario

LA MIA VITA E GLI INTERNAZIONALI CHE BEL VIAGGIO DA TILDEN A NADAL

Anche lui, Marcel Proust, era tennista. Come voi che, con mia perenne gratitudine, mi leggete. Ma, diversamente da me, forse da voi, seppe ritrovare il suo tempo perduto. Non è stato sempre la stessa cosa, nel nostro caso, e ci siamo limitati a considerare uno svago, una vacanza, quello che un geniale collega, Denis Lalanne, ebbe a definire «la lente d´ingrandimento delle nostre passioni».
Anch´io, che sono giunto a definirmi «un voyeur di professione», non ho probabilmente recuperato le emozioni più vive, che sono riemerse mentre mi avviavo verso i campi del Foro Italico, ostruiti da un´enorme, incombente, nuova costruzione. Felicemente sostitutiva dell´atroce «Campo dei Crampi», sortito, secondo italica corruzione, da un inciucio tra committenti e costruttori. Forse felicemente sostitutivo, anche se rimango in attesa di una comunicazione mediatica degli autori del Foro, gli architetti razionalisti Del Debbio e Costantini. Ancora privo dell´ormai indispensabile tetto, accettato addirittura dai conservatori di Wimbledon, il Centrale – che dedicherei a Carlo Della Vida, il rifondatore degli Internazionali, nel 1950. Al termine della lunga passeggiata intorno al Centrale, sono andato a sedermi al Pietrangeli, ex campo Pallacorda, ex campo delle Statue, e ho aperto e sfogliato un mio libro, appena uscito, del quale non oso citare il titolo, che porta come sottotitolo Cronache dello Scriba 1930’2010.
Quasi lettore di me stesso, l´ho sogguardato e percorso, così come si ripercorre, nella finale confessione, la propria vita. Vi ho ritrovato una sorta di destino, dal giorno in cui la mamma mi portò nella pancia, non ancora nato, al Tennis Club Milano, dove si disputava la prima edizione del 1930, e Tilden suscitava incredula sorpresa per il suo irripetibile talento e una omosessualità inaccettabile in quei tempi. A soli quattro anni, non ancora piccolo tennista, ecco un´altra visita agli Internazionali, insieme al mio concittadino, che sarebbe stato il mio Maestro, Valentino Taroni, campione d´Italia. Fu, quella, la mia prima lezione di punteggi, complicata dal fatto che sapevo contare solo sino a dieci. Capisco che, trovandomi seduto nel Pietrangeli, i pensieri milanesi non dovrebbero avervi cittadinanza. Ma proprio a Milano sono nati gli Internazionali, grazie a un altro grande dirigente, Alberto Bonacossa, conte del fascismo sì, ma derubato della sua creatura. «Car el mè car Clerici – ebbe a dirmi – Il Duce si era messo a giocare, e voleva il torneo a casa sua».
Eccoci dunque a Roma, al Foro Italico 1935 sommerso di marmi di luccicante biancore, oscurato dall´orbace delle divise degli allievi della Farnesina, a sostituzione di un pubblico davvero scarso. E, grazie alle tragica politica di Benito, allievo del tennista Monti, di fronte a un vuoto tennistico trapunto di sangue, lungo quindici anni. Si ricomincia nel 1950 grazie all´ebreo scampato Carlo Levi Della Vida, il rifondatore del nostro tennis. E, nel ruolo di comparsa, ricomincia anche il Clerici, vanamente proteso a vittorie tanto irraggiungibili da consentirgli un record imbattibile in secula seculorum, sei sconfitte in sei partite. Di nessuna di quelle partite il libro che vado sfogliando osa dar conto, mentre inizia la successione di articoli sui grandi. Una collana di campioni, di persone spesso assurte al ruolo di personaggi, primo tra tutti il profugo dal paradiso sovietico Drobny, e a battere Drobny l´australiano Sedgman, e Hoad, forse il più grande se, nel tennis, fossero ammesse classifiche All Time, che consentite non sono.
E poi i nostri grandi figli della guerra, Gardini e Merlo, su fino a Pietrangeli, unto del Signore, come diceva il più intelligente esperto di tennis che mai abbia incontrato, Giorgio Bassani, che alcune delle mie cronache ebbe la severa bontà di correggere con matita blu. Continua la collana con Martin Mulligan, Tony Roche che battezzai Roccia (Roccia, what that means, domandò), Laver (battuto da Pietrangeli in una edizione torinese, l´anniversario della fondazione d´Italia, 1951) il mio partner di notti brave Gerulaitis, il tennista che scriveva poesie, Vilas, Courier, e, nonostante la terra nemica, Sampras. Su su fino a Kuerten e alla attualità di Federer e Nadal.
L´elenco delle donne e ragazze non è da meno, in primo piano le sole due italiane capaci di vincere, Lucia Valerio e Annelies Bossi e poi Bellani. E le mondiali americane, la poliomielitica – ma sì – Hart, la Connolly (forse la più grande se, vedi Hoad), la mia amica e prima di color nero Gibson, la romana d´adozione Gabriela Sabatini e insomma i nomi che si possono leggere facilmente su un programma che termina con Jankovic e Safina. Lì, sul Pietrangeli, mi dico che sarebbe non meno bello che doveroso, come accade a Melbourne, ammirare i visi fusi nel bronzo di tutti i vincitori, magari affidando l´opera a un grande che, a Parigi, ha onorato la mia amata Lenglen, Vito Tongiani.
E ricordo quel che scrisse un altro campione che ebbi la ventura di conoscere, Ernest Hemingway, nelle ultime pagine di Morte nel Pomeriggio. «Se fossi riuscito a fare un vero libro ci sarebbe stato dentro…» Seguito da un elenco di persone e vicende non menzionate. Così come direbbe un esperto della corte dei Gonzaga, che a qualche partita di Giuoco con Rachetta, nonno del Tennis, non può non aver assistito: «Le donne, le volè, gli incauti errori/gli aces, le trame ed i match point io canto/che furo al tempo dei vent´anni ignari/e ancor la vita mia van percorrendo».