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 2010  aprile 26 Lunedì calendario

PERCH ATENE SPAVENTA GLI USA

«Non siamo ancora una nuova Atene-sul-Potomac». Il titolo del New York Times esorcizza lo spettro di un contagio greco sulle rive del fiume che traversa Washington.
C´è bisogno di esorcismi, a giudicare dallo spazio che la crisi greca ha occupato in questo weekend di vertici globali. Tra G-20 e assemblea del Fondo monetario internazionale, è la microscopica Grecia che ha calamitato l´attenzione. Tim Geithner, il segretario al Tesoro Usa, ha esortato l´Eurozona e il Fmi a «muoversi rapidamente». Il direttore generale del Fondo gli ha risposto, gettando la palla nel campo europeo: «Noi siamo pronti, il Fmi riconosce che c´è urgenza». Il cancelliere dello Schacchiere britannico, Alistair Darling, pur non appartenendo all´Eurozona: «Più si prolunga questa situazione più farà danni». Perfino il ministro dell´Economia canadese è apparso turbato: «Non si sta facendo abbastanza». L´agitazione di questo week-end a Washington poteva sembrare esagerata. Dopotutto il piano di aiuti necessario alla Grecia (45 miliardi di euro) è appena un quarto di quel che gli Stati Uniti hanno speso per il salvataggio della compagnia assicurativa Aig, travolta dai mutui subprime. La spiegazione dell´ipersensibilità sul caso greco l´ha data il presidente della banca centrale del Brasile, Henrique Meirelles: «Il mondo intero dovrà fronteggiare il problema dei debiti pubblici, comprese le nazioni maggiori. La Grecia è il campanello d´allarme che segnala problemi più grossi». Il Fondo monetario aveva accolto i leader a Washington con un rapporto che dice proprio questo: «La crisi greca può essere l´inizio della prossima fase di turbolenze». Un indizio viene dai mercati finanziari. Lo «spread», cioè la forbice dei rendimenti, che separa i titoli più scadenti dai titoli considerati più sicuri, è tornato ai livelli molto elevati che ebbe nell´estate del 2007. Cioè all´epoca in cui la Bnp Paribas fu costretta a congelare per insolvenza due dei suoi hedge fund che investivano nei mutui americani. Quel che successe dopo, lo ricordiamo. Una forbice larga è un termometro della paura.
«Non siamo ancora una nuova Atene-sul-Potomac», è vero perché nei momenti in cui la fiducia traballa, gli investitori mondiali tendono a ripiegare sul dollaro. Moneta-rifugio non per meriti suoi ma per l´effetto della debolezza dell´euro. Vista dagli Stati Uniti, dalla Cina e dal Brasile, la confusione con cui l´Eurozona affronta il problema del debito greco, conferma una diagnosi pessimista sul Vecchio continente: è in coda al resto del mondo per la ripresa economica. Non a caso questo week-end di vertici globali a Washington ha dato il via a un´operazione che sancisce il declino d´influenza dell´Europa: è iniziata la redistribuzione delle quote di capitali (e diritti di voto) all´interno della Banca mondiale. Seguirà un analogo ribilanciamento dentro il Fmi. Il saldo netto: retrocedono gli europei, avanzano la Cina e le altre potenze emergenti, l´America mantiene le sue posizioni. E´ solo una coincidenza, ma la ratifica dei nuovi pesi relativi avviene mentre l´Eurozona offre uno spettacolo di paralisi. «Ma davvero bisogna aspettare che votino nella Renania-Vestaflia?» chiedevano esterrefatti gli sherpa dell´Amministrazione Obama, cercando sulle carte geografiche l´ubicazione del Land tedesco. Con tempi di reazione simili, il collasso finanziario che colpì Wall Street nel 2008 sarebbe stato fatale. Questo rafforza tra gli americani la convinzione che l´euro è una gabbia troppo stretta, disegnata su misura per la disciplina germanica. Anche al Fmi c´è chi pensa che senza l´uscita dall´euro e una svalutazione competitiva Atene non ce la farà mai a riprendersi.
Ma il nervosismo americano ha anche ragioni domestiche. Quella tabellina-scenario con cui Giulio Tremonti da Washington ha cercato di rassicurare gli italiani («in proiezione sul futuro il nostro debito pubblico non è peggiore di quello americano») si può leggere al contrario. Il Fmi prevede che l´insieme dei paesi ricchi, il cui debito pubblico in media pesava il 75% del Pil alla fine del 2007, avrà raggiunto il 110% entro quattro anni.
Non siamo noi che stiamo meglio, ma gli Stati Uniti che scivolano verso livelli d´indebitamento di tipo «mediterraneo». Tanto che i Treasury Bond americani potrebbero perdere il rating «tripla A» - l´etichetta di massima solvibilità - per la prima volta nella storia (cioè da quando furono creati i rating, nel 1949). Per adesso i tremori dei mercati sulla Grecia non si sono dilatati fino a raggiungere le economie più ricche. L´America si ripara, finché può, dietro due scudi. Da una parte il ruolo del dollaro, tuttora l´unica moneta imperiale, con uno status globale. La seconda protezione è l´effetto anestetizzante del «tasso zero» che la Federal Reserve continua a mantenere sui rendimenti a breve. Ma sulla sindrome greca quel titolo del New York Times si limita a constatare «Non ci siamo ancora...».