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 2010  aprile 26 Lunedì calendario

ANCHE SULLA BANDA LARGA SI ABBATTE L’EFFETTO LEGA

Non deve passare attraverso iter parlamentari e mediazioni politiche, e se davvero partirà e tutto lascia pensare che sia così il federalismo della banda larga arriverà al traguardo prima di quello delle istituzioni. La Lega di Bossi stavolta non c’entra, anche se quello che sta accadendo in questi giorni nelle tlc italiane è troppo vicino al risultato del voto di marzo perché sia solo una coincidenza. Ma cos’è che sta accadendo? Lo si può definire in più modi: il risveglio dei territori, la riscossa delle provincie, la vendetta degli operatori piccoli (ossia i concorrenti di Telecom Italia), la rabbia dei distretti industriali. Nei fatti quello che accade è che nell’arco di pochi giorni si sta sommando una serie incredibile e senza precedenti di segnali. Tutti con un unico obiettivo: far decollare la banda larga italiana, ossia l’infrastruttura base di tutta la modernizzazione dello Stato e dell’economia. Tutti uniti contro un nemico a due teste: l’immobilismo del governo e di Telecom.
La prima novità è che a giorni Fastweb, Wind e Vodafone renderanno pubblico il loro progetto di procedere assieme a creare le Ngn. E’ il progetto che si pensava bloccato dall’inchiesta SparkleFastweb sulle false fatturazioni, ma non c’è stato alcun blocco. Le tre telecom ne hanno approfittato per fare ancora un pezzo di percorso sott’acqua e sono ormai pronte. Non escono altri dettagli perché vogliono tenersi fino all’ultimo tutte le opzioni libere. Da quelle più diplomatiche (un coordinamento delle strategie di ognuno con impegno a rendere agile il passaggio reciproco sulla nuova fibra posata) a quelle più estreme: una società comune con cui partire e iniziare a trattare da pari a pari con Telecom e governo.
La seconda novità è che mentre da tempo si chiede al governo di disporre la realizzazione di un catasto della banda larga fissa e mobile, tra fibra, adsl, reti mobili, wimax e reti hyperlan locali e dal governo non si muove nulla, Corrado Calabrò, presidente dellAgCom, ha pensato di andare avanti da solo e ha commissionato una prima rilevazione. Che gli sarebbe stata consegnata nei giorni scorsi e che dovrebbe venire ufficialmente presentata a breve: sarà la base della sua ”agenda in dieci punti’ che ha promesso di presentare con la relazione annuale dell’Autorità il prossimo luglio.
La terza novità è che Confindustria sta iniziando a mostrare segni di insofferenza verso questa palude decisionale. Qualche esempio? Giovedì scorso Paolo Angelucci, presidente di Assinform, ha detto che il primo digital divide italiano da superare «è la sottovalutazione del ruolo decisivo che l’It gioca nei processi di crescita della competitività, produttività e sviluppo del paese». E’ poco? Allora basta risalire la penisola fino al Veneto del trionfatore della tornata elettorale, non a caso il leghista Luca Zaia, neogovernatore, dove il presidente degli industriali di Padova Francesco Peghin ha detto senza mezzi termini: «Mezzo Veneto non è connesso» e «Senza le autostrade digitali le imprese non hanno futuro: solo il 10% delle nostre imprese vende via Internet mentre in Germania e Regno Unito lo fa il 45% generando fatturati aggiuntivi rispetto ai canali tradizionali».
Ma la novità vera è che Confindustria non si ferma alle parole: la nuova Federazione dei Servizi Innovativi, guidata da Stefano Pileri, l’ex responsabile proprio della rete di Telecom Italia, si appresta a chiedere ufficialmente una revisione del Piano Romani, quello degli 800 milioni spariti. Pileri chiede che si dia la priorità agli investimenti nei distretti industriali, per i quali basterebbero 200 milioni per portare intanto almeno una connettività di buon livello Adsl dove ci sono insediamenti economici tutt’ora privi di Internet.
In un documento appena messo a punto e intitolato «Progetto Italia Digitale», realizzato in collaborazione con le associazioni territoriali di Viale dell’Astronomia, si alza per la prima volta il velo dell’effettiva copertura a banda larga dell’economia italiana. Si distingue tra copertura ”lorda’ e ”netta’, dove la prima è solo teorica, e indica soltanto che una determinata utenza è allacciata ad una centrale in cui sono presenti i server dell’Adsl, i cosiddetti Dslam, mentre la seconda va a verificare se poi l’Adsl ci sia davvero o no (e può dipendere dalla qualità del rame, dalla distanza tra l’utenza e la centrale, dalla quantità e potenza dei Dslam istallati). Viene fuori che in termini di copertura lorda in 35 dei 59 distretti industriali italiani presi in esame si arriva a superare il 95%, ma se si va a vedere in termini di ”netto’ i distretti in cui l’obiettivo del 95% è rispettato sono in realtà soltanto 5 (non è un errore: è proprio cinque e basta).
Ma anche i palazzi romani iniziano a fiutare che il tema della banda larga può essere dirompente. E sempre la settimana scorsa e a distanza di un anno dall’indagine chiusa lo scorso giugno, è tornata a muoversi la Commissione trasporti e tlc della Camera, presieduta dal Pdl Mario Valducci, che ha presentato documenti e proposte per attivare la solita cabina di regia. Ma stavolta con una novità: decidere una volta per tutte una ”road map’ della digitalizzazione della pubblica amministrazione che inizi ponendo una data certa di arrivo non troppo lontana qualche anno, non di più ma lasciando libertà nei tempi e nei modi alle singole realtà territoriali. Un po’ come lo switch off del digitale terrestre: si torna alla visione federale del problema.
E non è finita, perché il colpo finale al Grande Piano Nazionale per la banda larga sta arrivando proprio dalle Regioni, ossia dalle protagoniste della ipotizzata futura Italia federale. Qui la scossa decisiva ha un epicentro già definito e si chiama Regione Lombardia. Giusto un mese fa, appena a ridosso delle elezioni, Roberto Formigoni annuncia un piano per portare la banda larga ultraveloce, quella oltre i 20 mega al secondo, sul 50% del territorio regionale entro il 2015.
Questo è stato l’annuncio. Se a questo in tempi brevi, diciamo pure entro un mese, dovesse seguire l’effettivo stanziamento di fondi (è questo il segnale che tutti attendono) allora lo scenario sarà davvero cambiato.
Intendiamoci, da un punto di vista formale lo strappo non è così visibile: l’annuncio di marzo di Formigoni è avvenuto con a fianco Paolo Romani, il viceministro con delega alle Comunicazioni. Ed è da settembre che Romani, dopo aver dato per approvati già lo scorso giugno i famosi 800 milioni per il divario digitale, se li è poi visti negare mese dopo mese ad ogni riunione del Cipe, senza che ai no di Tremonti facessero da contrappeso iniziative particolari di Scajola, che pure è il suo ministro di riferimento, visto che le Comunicazioni fanno ora capo alle Attività Produttive. Nel tempo poi Romani ha anche dovuto fronteggiare il minore entusiasmo di Renato Brunetta, ministro dell’Innovazione e della Funzione pubblica, forse distratto dal suo tentativo fallito di diventare sindaco di Venezia e comunque dall’assenza di fondi per fare alcunché. In tutto questo tempo Romani, che ancora pochi giorni fa giurava che almeno 200 milioni era sicuro di poterli ottenere in tempi brevi, ha surrogato alla mancanza di fondi sponsorizzando una serie di iniziative regionali. Ultima delle quali, appunto quella lombarda.
Ma il fatto è che tutti questi accordi locali sono rimasti in sostanza sulla carta in attesa dei fondi governativi. E ormai da un anno gran parte dell’attivismo delle regioni in materia di tlc è rimasto al palo: a bloccare gli amministratori locali è stata la possibilità che il governo decidesse di creare la sua vagheggiata ”Società della rete’ in cui far confluire ”forse’, ”in tutto’ o ”in parte’ la rete di Telecom Italia e, davanti al rischio di un esproprio, non hanno calato più un centimetro di fibra ottica, fermando così anche i pochi investimenti in infrastrutture di comunicazione che ci siano stati in Italia negli ultimi anni. Insomma: mesi di paralisi totale che non hanno prodotto nulla. Anzi, come non ha mancato di ricordare lo stesso Calabrò nel suo intervento del 15 aprile sulle pagine del Sole24Ore, l’Italia in termini di accessi a banda larga in fibra sul totale delle connessioni attivate sono scese dal 14 al 6%.
Se la Lombardia deciderà di riaprire la stagione dei cablaggi in fibra sarà come il colpo di pistola dello starter: liberi tutti. E senza aspettare il «governo del fare» che finora non ha fatto neanche quello che era a costo zero, come il catasto della banda larga. Figurarsi decisioni più sostanziose, come gli 800 milioni perduti, senza contare che sul tema delle frequenze liberate dalla tv da dare alle telecom mobili, tema cruciale per tutti, continua a rinviare ogni decisione.
Ci saranno problemi di coordinamento e regia? In teoria no e comunque non difficili da risolvere. L’importante è mettere giù cavi e aprire cavidotti. E comunque ci sono altre istanze di regia. C’è la conferenza Stato</->Regioni. E c’è l’AgCom. «Quella dell’iniziativa ”federale’ è un’ipotesi praticabile </-> spiega Nicola D’Angelo, commissario per le infrastrutture e le reti dell’AgCom </-> e d’altra parte l’Autorità ha già una sua articolazione locale: i Corecom, i Comitati regionali delle Comunicazioni che ci assicurano una capacità di dialogo continuo con il territorio. L’AgCom potrebbe essere quindi una cabina di regia naturale per accompagnare questi sviluppi, almeno per gli aspetti regolamentari».
Alla banda larga federale, per partire, non serve nulla di più.