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 2010  aprile 26 Lunedì calendario

MIRACOLO CINA IMPRESE ITALIANE AL TERZO POSTO

La Cina resta la fabbrica del mondo, ma si appresta a diventare anche il suo più grande mercato. Negli ultimi dieci anni il Pil è cresciuto in media del 10% (più 8,7% nel 2009 della gelata) e 300 milioni di persone ingrossano la nuova classe media più in espansione del pianeta. Entro dieci anni i cinesi «forti consumatori» saranno almeno 600 milioni. Oltre a rappresentare la piazza di vendita interna più ricca della terra, e più liquida della stessa Europa, il traguardo coronerà la più straordinaria impresa economica della storia. La Cina sarà il primo esportatore, il primo importatore e il primo consumatore del mondo e secondo gli analisti la Borsa di Shanghai avrà sostituito Wall Street nel primato degli scambi finanziari. Il boom del secolo spiega perché la corsa verso Oriente si fa sempre più combattuta. Sul treno della speranza c’è ora anche l’Italia. Scontiamo gli errori degli ultimi vent’anni, la lentezza della reazione dopo il crollo del Muro di Berlino e la demagogia anticinese. Il vento però è cambiato e il nostro Paese si trova in una posizione meno arretrata di quanto comunemente si percepisca. Le imprese italiane in Cina sono oltre 2mila, gli impianti produttivi 600. In quindici anni, ufficialmente, abbiamo investito 2 mila miliardi di euro, a cui vanno aggiunti almeno altri 2mila girati dai paradisi fiscali, a partire da Hong Kong. Siamo quarti in Europa, per interscambio, dietro a Germania, Francia e Olanda. Quest’ultima deve però la sua posizione ai grandi porti e se si escludono le merci in transito, l’Italia è il terzo partner Ue della Cina.
Per investimenti diretti, a causa dell’assenza di vere multinazionali, valiamo circa un terzo della Germania e la metà della Francia, ma restiamo davanti a Gran Bretagna e Spagna. La crescita dell’interscambio è lo specchio del passaggio di consegne economico tra UsaUe e Asia. Nel 2003 il giro d’affari tra Italia e Cina era di 11,73 miliardi di dollari. L’anno scorso, nonostante la crisi, si è fermato a 31,2 miliardi, contro il record dei 38,2 miliardi nel 2008. Secondo le stime di Confindustria, nel 2010 per la prima volta sarà toccata quota 40 miliardi. Nel 2009 l’Italia è stato il 24° fornitore e ha esportato in Cina merci per 11 miliardi di dollari. Prima di noi si piazzano, oltre a Berlino e Parigi, le economie industrializzate del Pacifico e i grandi fornitori di energia e materie prime. Abbiamo importato invece 20,2 miliardi di beni, decima piazza globale per Pechino, confermando il disavanzo storico innescato da delocalizzazioni e acquisto di beni a basso costo. Il saldo negativo, nel 2003, era di 1,57 miliardi, contro i 9,21 del 2009 e i 14,95 del 2008. La Cina l’anno scorso è stata però l’unica nazione in cui esportazioni e investimenti italiani sono aumentati e l’arrivo dei nostri imprenditori nell’ex Impero di Mezzo è frenato solo dall’incomprensibile insufficienza di voli diretti.
Il ritrovato dinamismo dell’Italia in Cina non deve far perdere le proporzioni. Per Pechino rappresentiamo l’1,10% delle importazioni e l’1,7% dell’export. Una goccia dentro l’import totale cinese di 1003 miliardi di dollari, l’export di 1202 miliardi per un interscambio globale di 2205 miliardi. Ma resta il dato di fondo: l’Italia ha capito che la Cina non è più un capannone che fa esplodere la disoccupazione a casa nostra, ma è si è trasformato in un gigantesco centro commerciale. Chi non c’è si consegna al fallimento. Le prime delocalizzazioni stagionali «stile Romania» hanno ceduto il passo a chi sceglie di produrre stabilmente in Cina per la Cina. Ad aprire la strada sono stati i marchi dell’alimentare, seguiti da industria meccanica, elettrica e farmaceutica, abbigliamento e calzature, lusso e gioielleria, arredo per la casa e il segmento auto, in forte espansione in particolare nella componentistica, nei pneumatici e nelle macchine agricole. La capacità d’acquisto e la voglia di consumo delle megalopoli cinesi è in tale espansione che un vero e proprio boom interessa già alta moda, studi legali, consulenza commerciale, architetti, gallerie d’arte e ristorazione. Mancano ancora all’appello, almeno a livelli adeguati alle loro dimensioni, i cavalli di battaglia del sistema economico italiano: Fiat ed Eni nell’industria, Intesa e Unicredit tra le banche, presenti con due filiali a Hong Kong e Shanghai. Solo Generali, nelle assicurazioni, confermano la propria storica dimensione globale.
Un particolare rivela i limiti che hanno fatto perdere al Paese molti treni per l’Oriente. L’80% degli investimenti italiani in Cina è fatto da imprese di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Se si aggiunge il Piemonte si supera il 90%. Pressoché assente il resto della nazione. «Ma la verità – dice Antonino La Spina, direttore dell’ufficio Ice di Pechino – è che fino a qualche anno fa l’Italia non era pronta per la Cina e questa non era adatta per noi. Le nostre imprese di qualità non avevano prodotti, numeri e capitali per un mercato a basso reddito da 1,3 miliardi di persone. La Cina dei grandi gruppi di Stato, a bassa produttività e bassa meccanizzazione, non offriva spazi al paesesimbolo delle nicchie hitech. Oggi tutto è cambiato: l’Oriente vuole alta qualità, efficienza e tecnologia favoriscono le medie imprese e la Cina ha inaugurato l’era del "buy italian"».
Nessuno aveva scommesso sulla velocità di un simile cambiamento. Nel 2000 l’Italia non figurava nemmeno tra i primi venti investitori nell’ex Celeste Impero. Oggi è ottava tra gli occidentali, oltre che quinto partner commerciale mondiale. Anche i governi di destra, nonostante secche di resistenza che continuano a invocare dazi e protezionismo, o a lanciare l’allarme della "invasione gialla", hanno capito che senza il mercato asiatico la capacità produttiva europea ha un futuro difficile.
La nuova stagione, aperta da Romano Prodi dopo le intuizioni di Romiti e De Michelis, è culminata l’anno scorso con il viaggio di Tremonti. Tra fine maggio e i primi di giugno una missione di sistema governoConfindustria, guidata da Scajola e Marcegaglia, porterà in Cina 170 imprese. Dopo la visita in Italia di Hu Jintao, nel luglio 2009, in autunno è atteso a Roma il premier Wen Jiabao. Anche Sace e Simest, che qui finanzia già 150 progetti industriali, hanno aperto gli occhi sulla realtà. «Non possiamo più – dice Franco Cutrupia, nuovo presidente della Camera di commercio italiana in Cina perdere tempo. Se gli investimenti sono interessanti, ad alta tecnologia e per prodotti di alta qualità, i cinesi hanno le porte aperte».
Le riforme che investono sanità, welfare e agricoltura, la svolta verso la «green economy», la concentrazione epocale nelle metropoli e il pacchetto statale da 500 miliardi per infrastrutture ed edilizia, aprono spazi immensi per investimenti in meccanica, costruzioni, energia, auto, ambiente e agricoltura. Per crescere in Cina, l’Italia deve però accettare che anche la Cina diventi protagonista nel nostro Paese. E’ l’America del secolo. Il fondo sovrano cinese, dotato di 600 miliardi per investimenti strategici all’estero, ne ha destinati 200 all’Europa. Privilegia ovviamente l’approvvigionamento di energia e materie prime, ma è a caccia anche di tecnologia e può salvare, oltre a imprese rimaste senza sbocchi, anche il nostro Mezzogiorno. «Essenziale – dice Alberto Forchielli, managing partner di Mandarin Capital, primo fondo di private equity italocinese e più importante operazione finanziaria promossa dei due Paesi – è vedere il cambiamento che proietta la Cina al vertice dello sviluppo mondiale. Per alta moda, calzature e gioielli, il presente è già qui e basta guardare le vetrine per rendersi conto che Usa e Giappone sono in archivio. La meccanica vale la metà del nostro business, ma la grande occasione sono ora gli impianti a basso consumo ed emissioni ridotte, e la sicurezza dei prodotti, a partire da farmaci e alimenti. Resta il nodo di credito e finanza, dove non siamo nessuno». Alcuni grandi istituti stranieri stanno intanto già fondando qui banche controllate al 100%. L’inglese «Hong KongShanghai Bank» sarà presto la prima società estera del mondo quotata alla Borsa di Shanghai. Finanza e credito sono la nuova frontiera della Cina: se l’Italia non si muove perderà l’ennesimo OrientExpress.