Giuseppe Galasso, Corriere della Sera 25/04/2010, 25 aprile 2010
Destra, sinistra e trasformismo al tempo dell’Unità
Nella storia dell’Italia unita gli anni dal 1860 al 1900 sono occupati da due icone: la «Destra storica» e la «Sinistra storica», dove «storica» indica solo l’appartenenza al passato. Senonché, alla Destra è toccata una fama ottima: austera moralità, senso dello Stato, spessore culturale, coerenza politica, tenacia nell’assicurare la vita del nuovo e ancor debole Stato italiano a cominciare dal pareggio del bilancio e dalla lotta al «brigantaggio», ardita unificazione del diritto e dell’amministrazione in un Paese appena unito dopo secoli di divisione, calcolo accorto delle possibilità del Paese, ma non esitando dinanzi a mosse ardite, come fu per Roma nel 1870. Alla Sinistra è toccata una fama opposta: minore senso dello Stato, meno moralità nel governo, politica estera velleitaria per le possibilità del Paese, poca cura dell’equilibro del bilancio e delle finanze pubbliche, demagogia, clientelismo e altri vizi del costume e dell’azione politica. Soprattutto, poi, si imputa alla Sinistra il «trasformismo», ossia la formazione di nuove aggregazioni con uomini di varia provenienza politica, fonte, si dice, di malcostume e incoerenza.
Non fa, però, ormai, torto a nessuno il dire che si è esagerato sia in bene per la Destra che nel negativo per la Sinistra. Certo, è sempre bene avere icone storiche luminose: sono parte decisiva di ogni «religione civica». Ma non c’è bisogno di cancellare il mito di quella Destra per dare alla Sinistra ciò che le tocca.
Il ventennio del suo governo (1876-1896) fu, infatti, un periodo di grande trasformazione del Paese, dominato da due personalità: Agostino Depretis e Francesco Crispi. L’uno dell’Oltrepò pavese, l’altro siciliano, ambedue con Garibaldi nell’impresa dei Mille (Crispi ne fu, anzi, il vero promotore), provenivano dalla democrazia mazziniana, e avevano poi accettato la monarchia sabauda quale base e garanzia di un’Italia unita in regime di libertà.
Erano, però, molto diversi. Depretis dal 1876 al 1887 fu a capo del governo per una diecina di anni, e di seguito dal 1881 alla morte nel 1887 (con quello di De Gasperi, e a parte Mussolini, è ancora il più lungo premierato italiano continuo). Fu ed è ritenuto il padre del vituperato trasformismo, che, però, fu anche uno sforzo meditato di trasformare i partiti risorgimentali, non più conformi alle nuove esigenze del Paese. Depretis mirava a un grande centro abbastanza riformatore tra Destra e Sinistra, con una visione non lontana da quella del connubio fra Cavour e Rattazzi che prima del 1860 fornì le basi parlamentari alla grande opera di Cavour, e con un appello a intendersi sulle cose più che a discutere dei principi. In pratica, il disegno ebbe molto di deteriore, specie nel Sud, dove già dal 1860 si erano «trasformati» in moltissimi (anche borbonici e clericali); e certo fu questa prassi deteriore a togliere al principio della trasformazione il suo vero significato politico. I governi Depretis apparvero, perciò, aggregazioni di interessi e ambizioni di consorterie e di persone di poco senso politico, esecutivi dal profilo amorfo e dannoso allo spirito pubblico.
Se si guarda, però, al bilancio dei suoi governi, il suo posto nella storia d’Italia egli e la Sinistra se lo sono guadagnato. In pochi anni si ebbero l’abolizione dell’odiata tassa sul macinato e del corso forzoso della lira, un allargamento del diritto al voto che quintuplicò gli elettori, la legge Coppino per l’istruzione elementare gratuita e obbligatoria, la tendenza a una minore pressione fiscale e al decentramento amministrativo, una prima legislazione sociale. In politica estera la Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria, in reazione alla Francia che ci aveva umiliati a Tunisi, sembrò deviare dalla linea risorgimentale, ma fu, in realtà, la definitiva assicurazione del ruolo dell’Italia fra le potenze europee (anche contro il Vaticano, dal 1870 ancor più ostile all’unità italiana) e rimase poi in piedi fino alla guerra del 1915. Vi fu, inoltre, una più decisa politica coloniale; e si ebbero, infine, una intensa politica di lavori pubblici (strade e ferrovie) e un primo avvio all’industrializzazione italiana.
Poi il ritmo riformatore si allentò e il trasformismo assunse i suoi toni meno positivi. Amministrazione e governo apparvero ispirati solo agli interessi degli uomini e dei gruppi al potere. Ciò gli procurò una forte opposizione. Ma nel 1887 egli riuscì ancora a portare nel suo governo Crispi e Zanardelli, e solo la morte ne stroncò il tentativo di dare, così, un nuovo avvio alla sua opera politica.
Non poco come si vede, e non meno che in altri periodi. Più complesso il bilancio per Crispi, premier dal 1887 al 1891. Egli tese a una politica di potenza, rivide la Triplice Alleanza con un’intesa con Londra, e giunse con la Francia a un’autentica guerra doganale. Potenziò le forze armate. Impresse nuovo slancio alla politica coloniale, in Eritrea e in Somalia. Appoggiò molto l’industria nascente.
Crispi pensava alla disciplinata e potente Germania di Bismarck, suo modello politico, autoritario e moderato-conservatore. L’opposizione ai suoi disegni fu, però, vastissima e ne procurò la caduta, ma quando, nel 1893 Giolitti, allora al governo, sembrò troppo debole verso il moto socialisteggiante dei Fasci siciliani, Crispi fu richiamato al governo come «uomo forte», e lo dimostrò combattendo socialisti e altre sinistre, e dando un altro tono all’azione dello Stato, che nel 1895 gli valse la maggioranza assoluta in Parlamento. Allo stesso tempo riprese con vigore la politica coloniale, mirando ora a un protettorato sull’Etiopia.
Egli governò, invero, in un periodo infelice. Oltre la guerra doganale con la Francia, anche la fillossera distrusse in pratica gran parte della vinicoltura meridionale. Nel 1893 ebbe inizio una crisi economica fra le maggiori fino ad allora. Per questo, per gli scandali sempre più frequenti che formarono intorno alla Sinistra un alone piuttosto nero, e per le tensioni sociali e politiche dovute anche allo sviluppo del Paese e alla sua politica autoritaria, l’opposizione crebbe di nuovo fortemente, specie a Milano, dove ci si augurò che in Africa gli toccasse «una batosta sintetica e risolutiva». Così accadde ad Adua nel 1896 e Crispi ne fu politicamente liquidato, lasciando di sé una fama per cui il fascismo lo indicò poi come suo precursore.
Rivendicazione incongrua. Il colonialismo di Crispi fu tutt’altra cosa dall’imperialismo fascista e il suo autoritarismo non ebbe nulla della dittatura mussoliniana. Egli restò sempre, al fondo, il democratico che era stato in gioventù. I suoi atti di governo lo dimostrano con l’istituzione, fra l’altro, della IV sezione del Consiglio di Stato per il contenzioso amministrativo, il codice sanitario, il riordinamento degli enti locali, la legge sulle opere pie, un nuovo codice penale.
Insomma, tanto da contribuire a valutare la Sinistra storica più equamente della sua cattiva fama e a non farne un’antitesi integrale alla superiore qualità politica e morale riconosciuta alla Destra storica (e anche a non farsi un’idea troppo negativa dell’Italia nel suo complesso). Aveva trovato un Paese appena avviato ad altri destini, ancora debole e arretrato, in cui emergevano la «questione sociale», la «questione meridionale» e un’emigrazione torrenziale. Lasciò un paese che cadde nella grave crisi del 1898, ma che ne uscì ancor più unito e liberale, avviato a un grande sviluppo e al futuro «miracolo» economico e sociale del pieno Novecento.
Giuseppe Galasso