Claudio Del Frate, Corriere della Sera 25/04/2010 Severino Salvemini, Corriere della Sera 25/04/2010, 25 aprile 2010
2 articoli – ADDIO A PANZA, IL CONTE DELL’ARTE. L’ITALIA LO BLOCCO’ PER 20 ANNI – Ce ne era voluto del tempo, ma nel 2000 la grande utopia del conte Giuseppe Panza di Biumo si è realizzata: aprire in Italia un museo con opere dell’arte minimalista e concettuale americana, una sfida portata per di più in una città come Varese, piuttosto povera in fatto di tradizione culturale
2 articoli – ADDIO A PANZA, IL CONTE DELL’ARTE. L’ITALIA LO BLOCCO’ PER 20 ANNI – Ce ne era voluto del tempo, ma nel 2000 la grande utopia del conte Giuseppe Panza di Biumo si è realizzata: aprire in Italia un museo con opere dell’arte minimalista e concettuale americana, una sfida portata per di più in una città come Varese, piuttosto povera in fatto di tradizione culturale. Finalmente, dopo vent’anni di tira e molla, la collezione Panza era stata aperta al pubblico. Forse il pensiero ha reso più dolce il congedo da questo mondo di Giuseppe Panza, morto a 87 anni nella notte tra venerdì e ieri alla clinica Madonnina di Milano. Nel mondo dei collezionisti e dei mercanti d’arte lo conoscevano come «mister 1.000 dollari», perché quella era la cifra massima che era disposto a spendere per l’opera di qualche artista sconosciuto. Ma c’era da giurare che il «parvenu» nel giro di pochi anni sarebbe balzato alle vette del borsino artistico. Rauschenberg, Rothko, Flavin, Oldenburg, Naumann sono solo alcuni dei nomi dell’arte contemporanea che devono la loro fama a Panza. Molte opere di quegli artisti sono state raccolte nella villa settecentesca di Varese dove la famiglia Panza si era trasferita negli anni ”30. Messa da parte subito la laurea in giurisprudenza, Panza nell’immediato dopoguerra aveva intrapreso la sua avventura artistica che dalla provincia lombarda lo avrebbe portato ad essere conosciuto in tutto il mondo. «Ero interessato all’arte ma non sapevo niente di collezionismo – aveva raccontato "mister 1.000 dollari" in un’intervista di qualche anno fa – ed ero impreparato intellettualmente. Grazie a un critico d’arte francese, Pierre Restany ero andato a esplorare Parigi che era ancora un punto centrale per l’arte». Siamo nel ”55: il salto oltre oceano, verso gli Stati Uniti è di pochi anni più tardi. «Prima di mettermi a collezionare – ecco ancora le parole di Panza – feci un lungo viaggio negli Usa: questo Paese cinquant’anni fa stava vivendo un nuovo rinascimento intellettuale. Questo grande spazio vuoto con libertà, indipendenza ed autonomia rispetto al passato, aveva le energie che vivevano intrinseche nella società, che è poi fatta dalla fusione di tante culture; questo creava un melting pot molto favorevole allo sviluppo delle migliori capacità». Le piccole gallerie di Manhattan e di Los Angeles diventano la miniera da cui Panza estrae le sue pepite: «Quando vedeva i lavori di Rauschenberg la gente si metteva a ridere, i direttori dei musei dicevano che Rothko non era un artista». Profeti poco avveduti: oggi il Guggenheim di New York possiede 350 opere cedute da Panza, il Moca di Los Angeles altre 200; non male per uno partito da Varese, per quanto da una famiglia nobile e alto borghese. Ma è in Italia che il conte incontra le difficoltà maggiori: all’inizio degli anni ”80 decide di donare la sua collezione privata e la sua villa con parco a Varese, prospetta una collaborazione con la fondazione Guggenheim ma la città risponde picche. Contatti vengono avviati anche con Milano, Panza insiste: il suo sogno è che l’arte, anche quella che arriva dagli States, ridotta a poche forme e segni essenziali possa parlare a chiunque in ogni angolo del mondo, anche nella provincia lombarda dedita al culto del «danée». Aveva ragione lui, ma bisogna attendere il ”96, quando viene firmato l’atto ufficiale con cui la collezione e la villa passano in gestione al Fai di Giulia Maria Crespi. «Signor conte, l’Italia le chiede scusa» dice in quella occasione l’allora ministro dei beni culturali Walter Veltroni. Panza si limitò a sorridere senza prendersi rivincite plateali. Essenziale e minimalista, proprio come l’arte che aveva sempre inseguito ed amato. Claudio Del Frate IL COLLEZIONISTA ALFIERE DELLA SOBRIET - Quando incontrava gli studenti, alla Bocconi (dove sono esposte opere della sua collezione) o nella sua villa di Biumo, essi gli chiedevano incuriositi chi fosse il collezionista, come si potesse definire il contemporaneo, quale sarebbe stata la prossima tendenza del mercato dell’arte. Giuseppe Panza li guardava un po’ in silenzio da sopra gli occhiali, cercava le parole giuste e iniziava: «Non posso parlare per altri, posso solo dirvi chi sono io e quali sono i miei gusti personali». E poi pochi concetti, concisi, chiari con parole semplici e modeste. Alfiere di una sobrietà essenziale di derivazione lombardo/piemontese che ben si sposa con i pezzi della sua collezione minimalista e senza orpelli, Panza di Biumo non ostentava mai la sua profonda cultura e l’intuito con cui aveva scoperto prima di altri nella metà del secolo scorso i grandi maestri dell’arte americana. «Disprezzo le persone che vogliono far vedere di essere ricche» sosteneva e aggiungeva che lo aveva sempre affascinato la capacità di dire molto con poco («il poco è più difficile del molto; col molto si riesce a confondere le idee dei meno preparati»). Collezionista outsider fuori dalle mode, comprava ciò che gli piaceva, incurante del gusto del pubblico, che poi sarebbe arrivato col tempo a destinazione. «Si vince con grande ritardo, bisogna solo saper aspettare», scriveva recentemente con tono zen nel suo libro «Ricordi di un collezionista». Con Milano la relazione non è mai stata troppo distesa. Giuseppe Panza era sempre in attesa che la città gli desse un segnale per poter finalmente dare l’annuncio che parte delle sue opere potessero essere viste e ammirate permanentemente anche dai cittadini meneghini. Purtroppo questo segnale non è arrivato in tempo. Severino Salvemini