Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 25/04/2010, 25 aprile 2010
UCCISI A 20 ANNI E DIMENTICATI. LA SPOON RIVER DELLE DIVISE
L’agente Claudio Graziosi ha 21 anni, è già sposato e sta per diventare padre. Sale su un autobus. Non è in servizio. Ma la donna accanto a lui l’ha riconosciuta: è Maria Pia Vianale, esponente di spicco dei Nap, Nuclei armati proletari. E Graziosi è un poliziotto che, se si trova davanti una terrorista, non fa finta di nulla. Ma come arrestarla su un autobus affollato, senza spargere sangue? Graziosi chiede al conducente di cambiare percorso per arrivare a una sede della stradale. Poi affronta la donna: «Sono un agente di polizia, lei è in arresto». La Vianale è sorpresa, ma entra in azione un uomo che è salito con lei: Antonio lo Muscio, un altro nappista. armato e spara sette colpi alla schiena del poliziotto. Due mesi dopo nascerà Claudio Graziosi, il bambino che non vedrà mai il padre.
La madre di Ciro Capobianco, Anna, perderà la parola al capezzale del figlio, che spira dopo due giorni di agonia. Anche il fratello di Ciro, Francesco, era un poliziotto, morto in ospedale per un infarto confuso dai medici con un’indigestione. Anna Capobianco resterà in silenzio per sette anni, sempre con il ritratto di Ciro tra le mani, nell’illusione di non averlo perso: chi la conosce dopo la tragedia pensa che sia sordomuta, le parla a gesti. Anche l’agente Ciro Capobianco aveva 21 anni. Sulla pantera sedeva dietro, il posto del più giovane, dov’è più facile essere colpiti, dando però il tempo all’autista e al capopattuglia di reagire. Sulla sua strada ci sono quattro terroristi neri: Alibrandi, Sordi, Belsito e Lai. Alessandro Alibrandi, uno dei capi dei Nar, sta mangiando un mandarino. Lo lascia cadere, impugna la P38 e spara. Ciro Capobianco non ha neppure il tempo di capire: una pallottola lo colpisce allo stomaco, un’altra alla testa. In ospedale arriverà quasi dissanguato.
Sono centinaia le storie come questa. Poliziotti e carabinieri uccisi a vent’anni dai terroristi, dai mafiosi, dai rapinatori. Ragazzi morti dimenticati. Come dimenticate sono le loro famiglie, persone semplici, spesso di paesi del Sud, condannate a portare da sole un dolore senza risarcimento. Ora un libro importante di Alessandro Placidi, « Divise forate » in uscita il prossimo 4 maggio da Sperling&Kupfer, racconta la storia di diciotto caduti. Anche loro sono uomini morti per l’Italia e la nostra libertà; anche restituirne la memoria è unmodo per onorare il 25 aprile.
Francesco Salerno, finanziere, travolto da un treno a Rondissone, sulla statale per Chivasso, mentre inseguiva due spacciatori nordafricani: 4 novembre 2005. (I giardini di corso Trapani, a Torino, portano il suo nome). Euro Tarsilli e Giuseppe Savastano, carabinieri di leva uccisi da un commando di Prima linea in fuga dopo una rapina, a un posto di blocco fuori Siena: 21 gennaio 1982. (I terroristi, un uomo e una donna, erano su un autobus di linea. Tarsilli e Savastano li individuarono perché continuavano a baciarsi, per nascondere i loro volti. A bordo ce n’era però un terzo, che aprì il fuoco alle spalle). Maurizio Arnesano, poliziotto, ucciso a diciannove anni sotto il consolato del Libano a Roma dai Nar, che non erano interessati a lui ma al suo mitra: 6 febbraio 1980. (Arnesano aveva appena mandato una sua foto alla famiglia, con un biglietto: «Non vi preoccupate, sono ancora vivo». la foto che uscirà sui giornali e sarà spedita ai parenti perché lo ricordino. Per la sua morte fu condannato all’ergastolo Giusva Fioravanti. Uno dei suoi sette ergastoli, senza considerare la strage di Bologna. Oggi Fioravanti è un uomo libero). Roberto Antiochia, poliziotto, siciliano, trasferito a Roma, rinuncia per restare a Palermo con il commissario Ninni Cassarà e cadere al suo fianco: 6 agosto 1985. (Antiochia è il primo a morire: si è gettato su Cassarà per proteggerlo, ma i killer della mafia hanno tutto il tempo di sparare duecento colpi e fuggire indisturbati).
Ci sono poi le storie che in teoria molti ricordano, come quelle della scorta di Aldo Moro o dei tre carabinieri uccisi al Pilastro dalla banda della Uno bianca. Storie che però nascondono dettagli dimenticati o poco raccontati. L’agente Francesco Zizzi era entrato a far parte della scorta Moro da poche ore: il giorno della strage di via Fani era il suo primo giorno di servizio. Invece Domenico Ricci, storico autista del presidente della Dc, avrebbe dovuto essere di riposo.
Antonio Santoro, maresciallo capo della polizia penitenziaria, aveva 52 anni quando fu assassinato dai Proletari armati per il comunismo di Cesare Battisti. Era appena uscito in strada, dopo aver salutato la moglie e i tre figli. Era il comandante delle guardie del carcere di Udine, dove era passato lo stesso Battisti. Un anno prima era stato attaccato dai giornali di estrema sinistra: «Articoli con accuse incredibili di peculato, corruzione, abuso di potere – racconta nel libro il figlio, Pino Santoro ”. Erano anni in cui chi voleva creare un bersaglio trovava facilmente le ragioni perché qualcuno lo mettesse nel mirino». Il comandante Santoro denuncia Lotta continua, contando sulla solidarietà dei superiori, che però non verrà. «Per sporgere querela, che è un diritto della persona, mio padre chiese l’autorizzazione. Gli risposero che la querela è un atto di parte. Come a dire: se vuoi querelare, fai pure. Non è il genere di appoggio che uno immagina di trovare. Ma se una guardia carceraria viene accusata ingiustamente, tutta la struttura che rappresenta dovrebbe sentirsi parte lesa. Fatto sta che mio padre fu lasciato solo. E assassinato».
Il carabiniere romano Andrea Moneta, anziché partire in treno come gli aveva suggerito il padre, preferì tornare a Bologna in macchina, con la Polo di cui andava fiero perché comprata con i soldi del primo stipendio. Il cambiamento di orario gli costò la vita: fu spostato nel turno serale e cadde nell’imboscata del Pilastro assieme a Otello Stefanini e Mauro Mitilini, 65 anni in tre. Il padre di Stefanini non può più partecipare alle commemorazioni del figlio. Si è ammalato di cuore, non esce mai di casa, vive disteso sul letto.
Il brigadiere Giuseppe Ciotta cadde in un agguato a Torino il 12 marzo del 1977. Il giorno prima a Bologna era stato ucciso il militante di Lotta continua Francesco Lorusso. L’omicidio è rivendicato dalle «Brigate combattenti». Ciotta fu scelto perché la sua foto era comparsa sul rotocalco Grand Hotel dietro a Giovanni Agnelli: era un uomo della sua scorta.
Aldo Cazzullo