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 2010  aprile 24 Sabato calendario

I MILLE SCHIOPPI ARRUGGINITI PER I GARIBALDINI IN BARCA

Quattro maggio 1860. Stazione di Parma. Un giovane di ventidue anni aspetta un treno che lo porti a Genova. Si chiama Giuseppe Cesare Abba. uno degli entusiasti che stanno cercando di raggiungere Garibaldi per imbarcarsi con lui in una nuova avventura patriottica. anche un tipo dalla penna felice, e con il suo Da Quarto al Volturno ci ha lasciato una delle narrazioni più intense e suggestive della intera spedizione dei Mille. Di quel giorno a Parma scrive: «Gli ho contati. Partiamo in diciassette, studenti i più, qualcuno operaio, tre medici. Di questi uno, il Soncini, è vecchio, della repubblica romana. Dicono che nel treno di Romagna troveremo altri amici, fiore di gente. Ne verranno da tutte le parti. Si fanno grandi misteri su questa partenza. A sentire qualcuno, neanco l’ aria deve saperla. Ci hanno fatto delle serie raccomandazioni: ma intanto tutti sanno che Garibaldi è a Genova, e che andrà in Sicilia. Attraversando la città, abbiamo dato e pigliato delle grandi strette di mano, e avuto dei caldi auguri». Tutti sanno, dunque. Ma certo! Non solo non è possibile nascondere l’ improvviso afflusso a Genova di un migliaio di persone che cercano Garibaldi e i suoi; ma lo stesso Vittorio Emanuele II è stato informato sin dall’ inizio di aprile delle intenzioni del generale, il quale gli ha perfino chiesto un avallo ufficiale che, peraltro, il re gli ha rifiutato. D’ altronde anche Cavour sa perfettamente che cosa stia accadendo a Genova, e per quali fini ci sia tutta la mobilitazione che c’ è intorno al grand’ uomo. Ed è esattamente a questo punto, tra metà aprile e i primi di maggio, che comincia il Grande Gioco Diplomatico di Cavour, che consiste nel mostrare - soprattutto alle grandi potenze europee - di opporsi alla preparazione dell’ iniziativa garibaldina, senza fare quasi nulla per impedirla davvero. Il primo quadro va in scena a Milano. Lì il 15 aprile il governatore della città, Massimo d’ Azeglio, ha fatto sequestrare una partita di ottimi fucili Enfield destinati ai garibaldini; il governo è chiamato subito in causa, perché deve confermare il sequestro; per un attimo Cavour tentenna; poi autorizza d’ Azeglio a procedere. un gesto pubblico inequivocabile, che sembra proclamare un’ incolmabile distanza tra il politico piemontese e il combattente genovese. Ma poi, subito dopo, attraverso l’ intervento diretto di Giuseppe La Farina, un uomo di Cavour, Garibaldi riesce ad avere un migliaio di vecchi fucili, che magari non sono un granché dal punto di vista qualitativo, e che sono sicuramente peggiori degli Enfield sequestrati, ma che comunque sono meglio di niente. Non solo. Il 3 di maggio - il giorno prima che Bixio e un’ altra quarantina di garibaldini sequestrino due piroscafi della compagnia Rubattino, il «Piemonte» e il «Lombardo» - Cavour dà ordine all’ ammiraglio Persano di allontanare le sue barche da Livorno e di spostarsi in Sardegna. Il 7 di maggio Cavour fa giungere a Persano l’ ordine tassativo di bloccare i due piroscafi garibaldini, qualora tentino di attraccare in un porto sardo. Ma ad andare in Sardegna Garibaldi non ci pensa proprio. Lui, invece, va giusto nella zona dalla quale Cavour ha fatto allontanare la squadra navale di Persano. Va a sud di Livorno, a Talamone, dove spera di trovare altri fucili e altre munizioni. Il Piemonte e il Lombardo vi arrivano il 7 maggio, e ci si fermano fino al 9. Intanto, alle 11 di sera dell’ 8 il comandante del 25° battaglione dei bersaglieri di Orbetello, che è a due passi da Talamone, riceve da Cavour l’ ordine di allontanarsi. Mosse curiose, per uno che va dicendo di non aver niente a che fare con l’ impresa garibaldina, e anzi di far di tutto per ostacolarla. Ma per quale motivo Cavour mette in piedi tutto questo marchingegno? lui stesso a spiegarlo in una lettera inviata a Costantino Nigra il 12 maggio: «Non ho impedito a Garibaldi di dar seguito al suo progetto, perché per riuscirci sarebbe occorso usare la forza. Ora, il ministero non è in grado di sfidare l’ immensa impopolarità che l’ avrebbe colpito se avesse voluto fare arrestare Garibaldi». Solo questo? No, non solo questo. C’ è anche l’ idea di stare a vedere che cosa Garibaldi riesca a combinare da solo. Se la sua iniziativa va male, si può sempre dire che non è stata appoggiata dallo Stato italiano. Se va bene, c’ è comunque la garanzia del programma politico esposto da Garibaldi con grande fermezza sin dalla metà di marzo: «Italia e Vittorio Emanuele»; che vuol dire che l’ eventuale «liberazione» della Sicilia e del Mezzogiorno può avere un esito solo: la loro annessione al Regno costituzionale formatosi nel Nord Italia. Rispetto a tutto questo complesso e un po’ tortuoso machiavello cavourriano, risalta senza alcun dubbio la limpida fermezza di Garibaldi e dei suoi. Mancano le armi? Poche storie, si parte lo stesso! Le armi che si requisiscono a Talamone e ad Orbetello sono ferrivecchi? Che importa! Ci sono poche cartucce per ciascuno? Si useranno le baionette! Determinazione virile ed entusiasmo patriottico, certo. Ma anche molto altro, per la verità: anche un’ allegra freschezza giovanile, che nei più accorti si traduce anche in una sorta di scoperta pre-turistica e antropologica dell’ Italia. Ascoltiamo di nuovo Abba, all’ arrivo a Talamone, il 7 maggio: «Vedevamo lontano un villaggio, una torre svelta, sottile, lanciata al cielo; una bandiera su quella agitata dal vento. Bandiera italiana, villaggio toscano. Era questo di Talamone, sulle coste maremmane. Che paese di povera gente! Carbonai e pescatori. La nostra discesa gli ha rallegrati. "Come si chiama quel monte là in faccia?" "Monte Argentaro". "E quelle case bianche, mezzo tuffate in mare?" "Porto Santo Stefano". "Con una veduta come questa sempre davanti agli occhi, dovete fare una bella vita!" "Sì, se si mangiasse con gli occhi. Ma ... basta ... finché si campa!" Così mi diceva un giovane carbonaio, mentre seguitava a discorrere, per farmi dire a sua volta chi siamo, e dove andiamo; io pendeva, proprio pendeva, dalle sue labbra, bevendo il dolce della sua lingua e pensando al mio dialetto aspro» (Abba è di Cairo Montenotte - Savona). Ma poi, bando alle tristezze: c’ è il mare, e fa caldo: «Mi sono tuffato in mare - scrive Abba - con una voluttà indicibile. Le acque erano tiepide, per tutta la riva una festa di nuotatori, sui poggi, a brigate, si vedevano i nostri godere il fresco dell’ erba». Però, poi, non sono mica in vacanza: sono lì per trovare nuove armi, per organizzare i ranghi, per prepararsi davvero al viaggio verso la Sicilia. Certo, quando queste benedette armi arrivano, sono una mezza delusione: «Intanto che si aspetta l’ acqua - scrive Abba in data 9 maggio -, fanno la distribuzione delle armi. Ne ho avuta una anch’ io, uno schioppo rugginoso che, Dio mio! E m’ hanno dato un cinturino che pare d’ un birro, una giberna, una baionetta e venti cartucce. Ma non si diceva a Genova che avremmo avuto delle carabine nuovissime?». Niente carabine nuove, dunque. Ma alla sera sono egualmente pronti a salpare. Arriva il momento: «Non una vela all’ orizzonte. Oltrepassata l’ isoletta del Giglio, cominciò una delizia di venticello che ristorava le vele. Il cielo è purissimo». Son partiti ma non sanno ancora dove stanno andando. In Sicilia, certo. Ma Garibaldi non ha ancora deciso il luogo dello sbarco. Intanto vanno, con la convinzione un po’ esaltata che ormai non li ferma più nessuno. E mentre vanno, Cavour l’ 11 maggio dà di nuovo l’ ordine alle sue squadre navali di fermare i garibaldini dovunque si trovino, «tranne che nelle acque del regno delle Due Sicilie». Ordine tempestivo assai: intanto che viene recapitato a chi di dovere, in quello stesso 11 di maggio Garibaldi e i suoi sono già a Marsala.
Alberto Maria Banti