Dario Di Vico, Corriere della Sera 23/04/2010, 23 aprile 2010
SE IL BORGHESE DIVENTA NO GLOBAL
Temistocle, Omero, Alfiero, Alvarado. Già solo scorrendo i nomi di battesimo, le vicende dei Nesi, imprenditori tessili di Prato, appaiono scottfitzgeraldianamente «una storia meravigliosa», carica di avventura e di valori. I Nesi, dunque, come frammento di un’epopea, quella dell’industria manifatturiera italiana capace di imporsi in tutto il mondo grazie alla manifesta qualità dei suoi prodotti.
Storia della mia gente di Edoardo Nesi, scrittore e rampollo della dinastia pratese, è dedicato a loro, ai piccoli industriali del Novecento, quelli che facevano i soldi anche se erano tonti e che non potevano prevedere che su di loro si abbattesse una malattia letale: la globalizzazione. Storia della mia gente è un libro amaro, è il sofferto racconto di una sconfitta, i Davide pratesi che stavolta soccombono contro i Golia del commercio internazionale. Quelli che si vantavano di produrre i tessuti più belli del mondo, ora devono licenziare la gente e scrivere il falso nei bilanci per evitare di incorrere nell’ira funesta delle banche. Così i Nesi un bel giorno del settembre 2004 decidono di andare dal notaio D’Ambrosi e di vendere. Di dimettersi dalla loro storia meravigliosa. Qualcuno incontrando Edoardo in piazza si complimenta per il tempismo ma prevedere una sconfitta è unmerito di cui nessun generale si è mai vantato, figuriamoci poi se si tratta di un giovane innamorato dell’azienda di famiglia al punto che quando per la prima volta va in America, a San Francisco, continua a chiedersi come facciano gli abitanti della città a campare «senza lavorare nel tessile».
Le pagine più belle del libro sono quelle che Nesi dedica al suocero, Sergio Carpini, altro piccolo imprenditore pratese. «Il Carpini» l’autore ce lo mostra come seguito da una telecamera, lo vediamo mentre fa l’alchimista con i tessuti, mentre mischia la lana con il lino e tinge da sé certe clamorose fantasie di lino e di seta. Vediamo «il Carpini» tenere a balia gran parte degli stilisti che conoscete, quelli che ora hanno imperi miliardari, ma da giovani si presentavano umili in fabbrica per vedere la collezione e lui non solo si prodigava in consigli ma li invitava anche a cena. Il Carpini un giorno affittò il Concordia, un vecchio elegantissimo battello degli anni Venti e andò a mostrare la sua collezione ai comaschi e a offrire pane di Prato e il vino delle sue vigne. Il Carpini aveva creato certi meravigliosi capi d’abbigliamento esposti, dopo la sua morte, come opere d’arte a Palazzo Strozzi a Firenze senza però che venisse ricordato nemmeno in un cartellino il loro inventore.
Per trent’anni tutto era andato benissimo, non bisognava nemmeno essere dei geni per far soldi a Prato. Senza bisogno di fiere, pubblicità e stilisti. Ed Edoardo sarebbe diventato anche lui un ricco industriale subentrando agli Omero, ai Temistocle e agli Alvarado. La storia però nel frattempo aveva fatto la sua inversione a U, il fatturato della ditta si riduceva anno dopo anno, mese dopo mese e alle aste contava solo il prezzo e «perdevamo sempre perché c’era sempre qualcuno più disperato di noi disposto a fare il prezzo romeno e poi andare a strozzare i piccoli artigiani più disperati di lui».
Un libro amaro, ma qua e là intessuto – mai parola fu più appropriata’ con un sottile filo di ironia. Come quando racconta la sua decisione di scrivere una lettera a Francesco Giavazzi, economista ed editorialista del «Corriere della Sera» che Nesi considera «il più acerrimo sostenitore dell’infinita bontà della globalizzazione». Canta le lodi di tutto ciò che contribuisce a stroncare ogni giorno di più la schiena alla piccola industria e «alla fine di ogni suo editoriale mi sentivo sempre in colpa e in dubbio». Edoardo, allora, si cala nella parte del mitico Ned Ludd, il distruttore di telai meccanici, passato alla storia come il nemico del progresso e immagina di scrivere al professore. «Caro Giavazzi, ieri notte ho fatto un sogno…». Poi però cambia idea e la lettera, firmata seriosamente Edoardo Nesi imprenditore in Prato, rimane sepolta tra le email non inviate. Più avanti nel libro l’ironia cede il passo allo sgomento, è il racconto di un blitz della polizia italiana in un laboratorio clandestino gestito da giovani cinesi. «Getti un’occhiata dalla soglia perché, anche se non c’è la porta, ti vergogni troppo per entrare». Tanto li vedi lo stesso i materassi buttati sul pavimento, i giacigli miseri, le coperte appallottolate, l’orribile sporco dappertutto. Ma vedi anche tanti computer, l’unico legame di quei poveri schiavi con la loro terra, con le loro famiglie infinitamente lontane.
In Italia finora abbiamo conosciuto due filoni no-global, quello esplicito e gridato rappresentato da movimenti giovanili, siti web e centri sociali, un’ispirazione che sembra però aver perso l’iniziativa. L’altro, implicito, è rappresentato dal leghismo che nella sua doppia funzione di sindacalista del territorio e di straordinaria macchina politica fa da specchio alle paure delle comunità del Nord e se ne serve per scalare il potere. Con il libro di Nesi prende corpo una terza lettura no-global, privata e non politica, l’invettiva di chi ha visto interrompersi una storia meravigliosa e non riesce assolutamente a farsene una ragione. E non è certo un caso che tutto ciò nasca a Prato, solitario avamposto della contro-modernità italiana.
Dario Di Vico