Luigi Offeddu, Corriere della Sera 23/04/2010, 23 aprile 2010
AI PIEDI DEL GIGANTE DI FUOCO «LA NOSTRA VITA TRA LA CENERE»
Un idillio, un quadretto vichingo. Ma Bergsteinn Bjorgulfsson, che fa l’operatore televisivo e in bocca a quel vecchio lassù c’è andato poche ore fa con l’elicottero, è ancora bianco in faccia: «Le scintille piccole piccole, che saltellano nel fumo? Non sono piccole: sono lapilli grandi come Mini-Minor, insomma come automobili. Automobili in fiamme». E c’è altro, racconta Bergsteinn: «Ho visto il fumo aprirsi di colpo, squarciato da una serie di cerchi come quando butti un sasso nello stagno: era l’onda d’urto sonora, e in due secondi l’elicottero è stato lanciato all’indietro, come contro un muro. Abbiamo dovuto atterrare, troppo brutto...».
Il gigante che ha paralizzato l’Europa sta sulle prime pagine dei giornali, ma è unmistero per tutti. Anche per quelli di qui, che con i vulcani convivono da millenni, che li hanno popolati di folletti e di diavoli. Dicono gli islandesi che se si risvegliasse Hekla, il vulcano più grande collegato al ghiacciaio di Eyjafjallajokull da una serie di condotti sotterranei, i lapilli grandi come auto farebbero sorridere, al confronto. Che i cieli si chiuderebbero per mesi, non per giorni. Nelle saghe vichinghe, Hekla è infatti un drago, e l’altro al massimo un serpentello. Ma per ora, è il serpentello a ipnotizzare quest’isola, anzi l’Europa intera.
E la sua bava è questa polverina nerissima, infinitamente sottile, che si può raccogliere qui, ai bordi della strada statale numero uno. magnetica, la si cattura con una monetina, è cenere con un odore che ricorda la polvere da sparo: la minaccia che ha tenuto a terra tanti aerei.
Adesso, in una mattina di sole con il termometro sottozero e il vento che spazza il mare, la cenere non vola nell’aria. In compenso ronza in alto un bimotore, uno solo delle linee interne, quasi un simbolo dei cieli europei che tornano a ripopolarsi. festa, per gli islandesi oggi è la «Festa del primo giorno d’estate», chi si ricorda del vecchio bisbetico? Ma ancora l’altro giorno, la polverina copriva come un sudario il villaggetto di Vik, sempre lungo la statale numero uno, e proprio in faccia al vulcano che tuonava impazzito illuminando metà del cielo: 300 abitanti fuggiti con le mucche e i cavalli («sembravano bestie drogate», si racconta ora), più altri 500 dei dintorni portati via sugli autobus accorsi dalla capitale Reykjavik. A mezzogiorno era ancora notte, e fioccavano strani lampi anche se in cielo le uniche nuvole erano quelle della cenere: 18 chilometri di strada seppelliti appunto dalla cenere, secondo i calcoli della polizia. La gente di Vik, come quella di altri minuscoli borghi (300 mila abitanti ha in tutto l’Islanda), si esercita ogni settimana alla fuga generale: 8 ore al massimo, perché tanto impiegherebbe secondo gli esperti la lava scaturita dall’ Eyjafjallajokull a raggiungere le zone abitate. Ma anche ieri è stata fatta quell’esercitazione, e tutti sono fuggiti in un’ora: nessuno ammetterà mai di avere paura, ma una sapienza innata, quasi genetica, ha insegna--
to che dei vecchi giganti non ci si fida mai.
Dovunque ti volti, del resto, qui è una lezione, cioè un vulcano. Le strade e molte case sono fatte di lava, grigio e nero dominano tutto con il blu del mare, e con i vapori bianchi dei geyser. Accanto al pennacchio di Eyjafjallajokull, c’è il cono di Hekla, «L’incappucciato», cantato anche da Giacomo Leopardi ( Dialogo della Natura e di un islandese: « I ruggiti e le minacce del monte Ecla...»).
Nel mare proprio di fronte, c’è invece l’isoletta di Vestmannaeyiar, con il suo bravo vulcano, un milione e passa di uccelli chiamati «pulcinelle di mare», e il paese di Heimaey: dove una notte, nel 1973, la strada principale si aprì vomitando gas e fiumi di lava; fortunatamente i pescherecci erano rimasti in porto per una tempesta, due traghetti arrivarono a tutta forza dalla terraferma, e così poterono fuggire i 4.000 abitanti (il vento cambiò poi direzione, la lava risparmiò molte case, solo un pescatore morì).
Anche l’Eyjafjallajokull ha già dimostrato di che cosa è capace, e non solo portando a terra gli aerei. Quando i fiotti di lava e i vapori roventi sputati dal cratere hanno fuso a temperature infernali la calotta del ghiacciaio, sono cresciuti in poche ore di 3 metri i ruscelli che scorrevano alle pendici, molto più a valle. Cavalcate di macigni e di fango si sono precipitate verso la costa, spinte da un vento acre e soffocante, mentre un muro nero tagliava la strada statale. E l’eruzione di 15 giorni fa, spiegano ora i vulcanologi dell’università di Rejkyavik, sarebbe stata 20 volte più potente di quella di marzo: «Il che non era previsto. Ma nulla o quasi nulla, con i vulcani, può essere previsto».
Un misto di fatalismo, di curiosità e di apprensione regola ora la vita quotidiana. Non si parla solo di vulcani: il governo ha appena messo fuori legge gli spettacoli di spogliarello e di «lap-dance» o tutti quelli che in genere «traggono profitto dalla nudità di chi vi lavora», al fine di proteggere la dignità delle persone. Infuriano le polemiche.
Con la ripresa dei voli dall’Europa sono arrivati turisti in vena di emozioni, vulcanologi e naturalisti in genere: buone notizie – almeno potenziali – per un Paese già messo in ginocchio dalla crisi economica, con le 3 banche principali virtualmente fallite e un referendum popolare che ha appena gridato «non ti pago» ai creditori di mezza Europa. C’è chi spera proprio nei turisti: e infatti, qualche comitiva in fuoristrada già si avventura verso il vulcano. «Che merita davvero, è una meraviglia», spiega Maddalena, 22 anni, italiana di Trento che serve bistecche di balena al ristorante «Heresford» sulla centrale via Laugatorg: giunta qui con il progetto Erasmus, per studiare lingue all’università, ha scelto di restare dopo essersi innamorata dell’isola. Spiega che il vulcano è parte della vita di tutti, come il mare o la neve d’inverno, come il sole di mezzanotte in giugno o il buio che cala subito dopo pranzo in gennaio. Il vulcano è anche parte della vita di Olaffur Eggertsson, beniamino dei fotografi di qui perché la sua fattoria siede proprio sui piedi dell’Eyjafjallajokull, ne è un po’ l’icona bucolica. Il nonno di Olaffur, cent’anni fa, già seminava in questa terra nera. Ma ora il nipote ha deciso di portare altrove le 190 mucche, almeno per qualche mese: ha detto di essere stanco; e che per la prima volta, nel comportamento della montagna amica, c’è qualcosa che non lo convince. Olaffur è passato l’altro giorno per la statale numero uno, con le sue mucche sugli autocarri. I poliziotti l’hanno visto salutare con la mano il vecchio che fuma lassù, e nessuno ha riso.
Luigi Offeddu