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 2010  aprile 23 Venerdì calendario

ADDIO PIEMONTE FESTA IN SAVOIA

Il presidente Sarkozy arriva al suono dalla Marsigliese e del canto degli Allobrogi, che è l’inno della Savoia, risale al 1856 ed ha persino un fiero riferimento polemico a Napoleone III, l’imperatore che unì la regione alla Francia in cambio dell’appoggio militare alla guerra d’indipendenza in Italia. L’accoglienza è freddina, a dirla tutta: c’è una manifestazione della sinistra lontano dal blindatissimo percorso del corteo presidenziale, intorno al quale si assiepa una folla non esattamente straripante. Ma è un giorno di festa, e il presidente pare in gran forma.
Commemora il centocinquantenario del «rattachement», parola che suona molto meglio di annessione, davanti alla Sainte Chapelle, e il suo discorso è vibrante: « La Savoia, che non era stata conquistata dalla Rivoluzione ma si era donata ad essa per amore della libertà, non poteva dimenticare il sangue versato sui campi di battaglia della Repubblica e dell’Impero». Così è tornata al seno materno: «Nel 1860 i savoiardi si sono sentiti francesi, confermando con un voto di massa la scelta che già avevano fatto nel 1792». Il presidente è oratore elegante, qua e là scatta un applauso educato e composto.
Rassicura, celebra un secolo e mezzo di storia nazionale, ricorda che i savoiardi non sono più da tempo i «piccoli spazzacamini» delle vignette popolari, parla di Olimpiadi (la zona è candidata per quelle invernali), della Tav Torino-Lione, e improvvisando rispetto al testo scritto ricorda come solo «i popoli che si uniscono» siano «popoli forti». Tra il pubblico, una simpatica signora che di cognome fa Jarre proprio come la scrittrice torinese (che ha letto) scuote la testa sorridendo e si chiede: chissà. «Chissà se abbiamo fatto una bétise, una sciocchezza, 150 anni fa. Qualcuno ora lo dice. Forse abbiamo cambiato un centralismo con un altro: quello di Torino con quello di Parigi».
In ogni caso, siamo tutti molto fieri di essere savoiardi, spiegano i vicini. Nel cielo passa la pattuglia acrobatica, Anne Paccard, nipote del produttore di campane di Annecy, canta per il presidente l’inno dell’amore reso celebre da Edith Piaf, i chasseur alpins presentano le armi. La città e il dipartimento hanno organizzato manifestazioni, mostre soprattutto; il 15 giugno, per ricordare la firma dell’atto ufficiale che sancì il risultato del plebiscito, ci sarà un pranzo fra amministratori locali e storici a Palazzo Ducale, e sarà un «dejeneur republicain», un pranzo repubblicano. La sera prima, musica e giochi di luce per tutti.
E’ festa, e non solo una festa ufficiale. L’addio di Chambery al Piemonte, e in prospettiva all’Italia, non è stato traumatico come quello di Nizza; fu anzi un passaggio naturale. Per una volta, la verità ufficiale e pubblica non si discosta molto dalle ricostruzioni storiche più penetranti. Nessuno considera quel passaggio di frontiera uno scampato pericolo, ma certo nessuno lo rimpiange. Il professor Silvan Milback, studioso dei rapporti con l’Italia nell’Ottocento, ha tenuto proprio ieri un affollato seminario nel Campus dell’Università sul tema del «rattachement», ben simbolizzato da una stampa propagandistica dell’epoca: dove una Francia colta, prospera, moderna, accoglieva una Savoia povera e contadina aprendola a una grande promessa di futuro.
C’è qualcosa di vero. «O almeno, la nostra popolazione la vide così. Il risultato del plebiscito era ovviamente scontato, perché la cessione tra gli Stati era già stata siglata, ma ci fu un forte dibattito fra annessionisti e antiannessionisti, testimoniato da innumerevoli pubblicazioni». I liberali volevano restare con Cavour e re Vittorio, e cioè con un Piemonte liberale. I conservatori erano per Napoleone III, e vinsero a man bassa. «Non si può dire che la popolazione abbia seguito ciecamente le indicazioni dei notabili, perché un 30% dell’élite locale era antifrancese». Pesava la lingua (i deputati savoiardi avevano riconosciuto, già dallo statuto albertino del ’48, il diritto di esprimersi in francese in Parlamento), pesavano gli interessi economici gravitanti molto più verso Lione e persino Parigi. Pesava soprattutto il fatto che il Piemonte guardava all’Italia, e l’Italia era lontana.
Addio senza rimpianti, dall’una e dall’altra parte. «Il legame con i principi, invece, è tutt’altra cosa - spiega lo storico -: anche se come sempre si tratta in buona parte di una ricostruzione della memoria, perché la situazione sociale è cambiata enormemente». L’erede al trono è ad ogni buon conto una star, quasi come da noi. Ieri si era diffusa la voce che avrebbe partecipato alla giornata di celebrazioni, e la curiosità non era poca, visto che Chambery già sapeva di dover rinunciare alla first Lady francese. No Carlà, no party, Emanuele Filiberto era l’ultima speranza di glamour. Qualcuno, fiutando l’italianità del cronista, si è avvicinato per chiedere notizie, magari una mezza conferma. Siamo stati costretti a deluderlo, ma a tutto dire non ci è parsa una delusione straziante.