Ugo Bertone, Libero 23/4/2010, 23 aprile 2010
EPIFANI FA IL SINDACALISTA SULLA PELLE DEI LAVORATORI
Nel corso del 2009 i sei stabilimenti italiani di Fiat Auto hanno prodotto, con il contributo di 21.500 dipendenti, 600mila vetture. Nello stesso periodo, lo stabilimento di Tichy, tra Cracovia ed Auschwitz, ne ha sfornato 605mila: una nuova Panda o una 500 ogni 35 secondi. Con quanti operai? In tutto 6 mila, ma in forte crescita, visto che solo due anni prima, l’impianto dava lavoro a 3.610 addetti.
Nonostante il forte aumento dell’occupazione, però, a Tichy (dove ha lavorato in incognito lo stesso John Elkan a fine anni Novanta) i giorni lavorativi sono sei per settimana. Condizioni del genere si riscontrano a Betim, stabilimento di punta della Fiat brasiliana, dove l’orario medio è di 44 ore. Il salario? Circa 850 dollari al mese, ai massimi delle paghe dello Stato di Minas Gerais come dimostra il fatto che, da quelle parti, non si registra uno sciopero in Fiat dal 1985.
Sono queste le condizioni che la new Fiat di Sergio Marchionne potrebbe sfruttare nel caso che, complice l’ostilità della Fiom, l’azienda decidesse di far scattare il ”piano B”, ovvero la fuga dall’Italia. Una soluzione che, come ben sanno al Lingotto, avrebbe un costo politico e psicologico enorme: le aziende sono organismi vivi, le cui radici si alimentano nel territorio, non pacchi postali da spostare a piacimento. Ma, a questo proposito, non va trascurato il fatto che il territorio domestico del Lingotto è ormai l’Europa, non solo il Belpaese: la nuova fabbrica di Kragujevac, nel cuore della Serbia, dove i salari medi superano di poco i 400 euro, dista da da Milano 1.162 chilometri, duecento in meno del tragitto tra Termini Imerese e la capitale del Nord.
in questa cornice che va inquadrato il confronto su Pomigliano. Il piano di Marchionne prevede 700 milioni di investimenti per trasformare quello stabilimento, una delle croci della storia dell’industrializzazione del Mezzogiorno, in un impianto capace di competere con Tichy. Ma per questo non bastano i quattrini: ci vuole, dice l’ad della Fiat, la necessaria flessibilità, in grado di garantire una produttività analoga. Certo, non si pretende, per fortuna, che i salari scendano a livelli polacchi (anche se c’è da invidiare una fiscalità sulla busta paga di almeno dieci punti inferiore alla nostra...). Ma va recuperato il ”gap” in termini di flessibilità, senza esitare di prevedere periodi di stop forzato, quando la domanda non tira. O, al contrario, sfruttando gli impianti oltre ogni limite quando si tratta di servire un mercato che tira. Certo, non è la promessa del Paradiso: si lavorerà di più per un salario che, se non cala la pressione fiscale, di certo non salirà. Ma, in cambio, una Fiat capace di sfornare 1,4 milioni di macchine invece che 600 mila in sei stabilimenti (chiuderà Termini, ma riaprirà la Bertone) potrà garantire un posto di lavoro sicuro. Non è poco di questi tempi. Lo ha capito Raffaele Bonanni, che ieri ha garantito il suo appoggio al progetto Fabbrica Italia, rivendicando, come è giusto, che parte del guadagno di produttività finisca in salari. Sembra averlo capito Pier Luigi Bersani che, però, parla di «qualche ombra» per coprirsi sul lato sinistro (vedi Idv, già pronta a cavalcare i temi più demagogici). Non lo vuol capire la Fiom Cgil che, in mancanza di meglio, si attacca al metodo tuonando, attraverso Gianni Rinaldini, contro l’ipotesi di «un accordo a scatola chiusa» o «sotto scacco», come afferma Maurizio Mascoli della Fiom Campania. Ma contro il «ricatto» dei numeri, non c’è molto da dire. Pena il rischio di rovesciare la scacchiera.