Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 23/4/2010;, 23 aprile 2010
CHE PRESIDENTE SARA’ JOHN ELKANN
C’era solo una cosa che poteva rovinare il primo giorno da presidente di John Elkann da presidente della Fiat: una condanna del suo mentore, l’avvocato Gianluigi Gabetti, nel processo che ieri, a Torino, doveva arrivare a sentenza. Invece il tribunale ha deciso di chiedere una nuova perizia: serve un parere tecnico (ancora non si sa di chi) per capire se il comunicato con cui le holding finanziarie che controllano Fiat hanno influenzato il mercato, nel 2005, quando hanno detto di non aver pronta nessuna manovra difensiva per evitare che il controllo dell’azienda passasse alle banche creditrici. Invece, con un contratto di equity swap assieme alla banca Merrill Lynch, le società finanziarie degli Agnelli avevano fatto in modo di aver sempre un quantitativo sufficiente di azioni per non scendere sotto la quota di controllo. Ma il mercato non ne sapeva niente. La richiesta della perizia ha stupito l’accusa, guidata dal pm Giancarlo Avenati Bassi, perché la Consob ha già sanzionato l’operazione a suo tempo. E se l’autorità che vigila sulla Borsa si è già pronunciata, che bisogno c’è di un altro parere? Il problema è che la Consob è parte civile nel processo e quindi non è considerata parte terza. Comunque vada, il Tribunale di Torino ha evitato che il neopresidente di Fiat dovesse fare i conti con il peccato originale alla base della rinascita del Lingotto proprio nei giorni dell’insediamento. CHIUDERE I CONTI. I conti con il passato, comunque, sono quasi chiusi: Gabetti ha già annunciato che lascerà la presidenza dell’Accomandita Giovanni Agnelli &C., cioè la cassaforte che, a monte della piramide di holding, detiene le azioni della famiglia allargata. In automatico, a metà maggio, gli subentrerà John e il passaggio generazionale (innescato nel 2003 dalla morte di Gianni Agnelli) sarà completato. Questa è una nuova Fiat. Per spiegare che tipo di azienda sarà, un conoscitore di casa Agnelli-Elkann, ricorda il 2004, quando sia John sia l’amministratore delegato Sergio Marchionne erano appena arrivati in Corso Marconi: ”Quando i due si incontravano nei corridoi, tra loro parlavano in inglese. Mentre con il fratello Lapo, John preferisce parlare francese, perché sono entrambi cresciuti in Francia”. Dopo le dimissioni di Luca Cordero di Montezemolo, il vertice dell’azienda è più omogeneo: due uomini – Elkann e Marchionne – che hanno storie diverse ma con un punto in comune: non pensano in italiano, che per loro è la seconda o terza lingua, hanno viaggiato e si sono formati professionalmente all’estero (Marchionne in Svizzera, Elkann in due anni di stage in giro, soprattutto per l’Asia). E c’è chi ha interpretato proprio in questa chiave internazionalista il lungo applauso (irrituale) degli analisti all’I nv e - stors day di mercoledì, quando è stata annunciata l’i nve s t i t u ra di Elkann a presidente: finalmente – sembrava dire l’applauso ”manager globali adatti a una sfida globale come l’integrazione con Chrysler, troppo impegnativa per lasciarla a un italiano. Sulla Stampa, però, l’ex direttore Marcello Sorgi che ha seguito da vicino l’ascesa di John, ricorda che ”se non avesse avuto interesse per il suo Paese e la sua tradizione familiare, avrebbe potuto scegliere liberamente e diversamente. Non si sarebbe stabilito a Torino, non si sarebbe sposato con una ragazza italiana da cui ha avuto due figli e con cui è rimasto a vivere nella città e nella casa che fu di suo nonno”. Il piano 2010-2014, che pure ha inquietato i sindacati per la richiesta di Marchionne di una maggiore ”f lessibilità” soprattutto nei turni in fabbrica, prevede un raddoppio della produzione in Italia e investimenti per 20 miliardi in cinque anni sul territorio, oltre alla scelta di spostare la costruzione della Panda dalla Polonia a Pomigliano d’Arco (segnale che non conta solo il contenimento dei costi). DALLA 500 ALLA JEEP. Eppure il nodo dell’italianità non si misura soltanto nelle scelte individuali, ma anche in quelle di prodotto. Il simbolo dell’era Montezemolo resterà la 500, lanciata nel 2007 con un’operazione v i n t a ge che voleva ricollegare la Fiat risanata (con il titolo in Borsa che viaggiava sopra i 20 euro) con quella del boom, facendo dimenticare quello che c’era in mezzo. Lo spot con la musica di Giovanni Allevi e lo slogan ”La nuova Fiat appartiene e tutti noi” c re a - va un legame concreto con il Paese. Il veicolo candidato a riassumere lo spirito della presidenza Elkann sembra essere il Voyager Chrysler. Per due ragioni. La prima la riassumeva ieri il Detroit News: ”La 500 è l’auto che vuole Washington, che rispetta i limiti federali sull’inquinamento, quella che rispetta gli accordi con Obama che hanno permesso alla Fiat di avere gratis la Chrysler. Ma nel mondo reale torna a salire la domanda per i fuoristrada”. Finché la benzina resta a basso prezzo, gli americani continueranno a comprare Suv, ”tr uck” e le grosse monovolume come il Voyager che si candida a vendere più della 500 (che negli Stati Uniti arriverà nel 2013). Seconda ragione: il Voyager arriverà in Italia già nel 2011 con il marchio Lancia. Segnale che i brand si confondono e sovrappongono, la loro specificità (anche nazionale) viene sacrificata a un disegno più ampio, quello dell’integrazione tra le piattaforme produttive e del raggiungimento dei sei milioni di auto prodotte all’anno dal gruppo, vera ossessione di Sergio Marchionne. Il marchio Lancia di fatto si limiterà a rivestire auto americane, con l’eccezione dell’ennesimo restyling dell’eterna Ypsilon. Cose impensabili quando, con Luca De Meo alla guida del marketing, l’italianità era curata in ogni dettaglio. P O L I T I CA M E N T E . E’ chiaro che in questa nuova Fiat la politica italiana conterà meno. Il Lingotto è uscito da molti dei ”salotti buoni”. Per scelta, non per necessità. In un libro non tenero (’I lupi & gli Agnelli”, il giornalista Gigi Moncalvo riportava giudizi duri su Jaki: ”Va notato che in pubblico non è mai solo [...] sa di non avere del tutto la libertà di parola [...] si esprime di rado in prima persona, preferisce usare il ”noi’”. Come dire: da solo non è capace di gestire le complesse relazioni che spettano a un presidente Fiat. Ma chi conosce bene John spiega: ”Ha la stessa educazione militare del nonno Gianni e con disciplina si prepara da sempre a ricoprire questo ruolo. Accompagnava l’Av - vocato a Palazzo Chigi, da anni gestisce in prima persona i rapporti, anche con Silvio Berlusconi che nel 2004 era al suo matrimonio e per poco non si è anche messo a cantare”. E poi, notano dal Lingotto, la vera poltrona di comando alla Fiat è quella di presidente della finanziaria Exor. E quella, Jaki, la ricopre già da due anni. Quando Gabetti la lasciò perché sospeso dalla Consob che lo aveva considerato colpevole di aver mentito al mercato sull’equity swap.