Massimo Mucchetti, CorrierEconomia 19/04/2010, 19 aprile 2010
BORSA LA SECONDA MISSIONE DI GNUDI
Piero Gnudi ci sta riprovando. Il presidente dell’Enel presiede anche la Emittenti titoli Spa, che rappresenta le società quotate, e in quest’ultima veste tenta di raggruppare in una holding le quote di Intesa Sanpaolo, Unicredit e di altri soggetti italiani nel London Stock Exchange ( Lse). Nel 2007, al momento del passaggio di Borsa Italiana alla Borsa di Londra, gli azionisti della società di gestione di piazza degli Affari avevano ottenuto il 29% di Lse.
La prima volta
Gnudi cercò di unire la compagine per avere una reale voce in capitolo sulle rive del Tamigi, ma invano: né il governo né la Banca d’Italia lo sostennero, e così alcuni soci hanno venduto le azioni Lse con gran guadagno, mentre altri le hanno tenute, non si capisce bene il perché visto che anche adesso, con il valore della partecipazione dimezzato, frenano sull’aggregazione degli italiani a Londra. La partita non è finita, certo, ma la strada di Gnudi è in salita: oggi come ieri i banchieri italiani non attribuiscono grande importanza al controllo nazionale del mercato borsistico.
Hanno, in questo, alcune ragioni e alcuni torti. La più importante ragione è quella che le banche, sempre a caccia di matricole e commissioni, non dicono o dicono poco: la Borsa mediamente non serve a finanziare lo sviluppo. A partire dal 1993, quando il Testo unico bancario avvia l’Italia verso la banca universale, fino ai giorni nostri, sono molti di più i denari che escono dalle imprese e vanno verso i soci attraverso dividendi, offerte pubbliche d’acquisto (Opa) e di vendita (Opv) e acquisto di azioni proprie ( buy back ) rispetto ai denari che i soci mettono nelle imprese attraverso aumenti di capitale e offerte pubbliche di scambio (Ops). La mungitura impressiona: 369 miliardi di euro in 17 anni. Nel 2009 ( al 2010 mancano ancora i dividendi) il saldo diventa sì positivo, ma per cifre minime.
Niente di male in linea di principio: le imprese devono remunerare il capitale. E però nella logica esasperata delle Borse, per dare ai soci le imprese fanno anche troppi debiti, e questo alle imprese fa male. Non è un caso se la struttura finanziaria delle più grandi, il grosso della Borsa, sia da anni più debole di quella delle medie imprese, quasi tutte non quotate. Di più, in alcuni casi gli aumenti di capitale sono serviti ai soliti noti per guadagnare scaricando sul parco buoi il rischio. Il caso Fastweb è esemplare. I fondatori, Silvio Scaglia e Francesco Micheli, ci misero due lire. I quattrini veri li investì la Borsa sull’onda della new economy , senza aver in mano nient’altro che un business plan non valutabile dai risparmiatori, ma sufficiente per Borsa Italiana cui era stato riservato, in seguito alla privatizzazione del 1997, lo scrutinio delle matricole. L’azienda ora esiste e funziona, ed è un bene; gli astuti fondatori hanno venduto con vasto profitto, buon per loro; il parco buoi ha subito il salasso, e questo è male ancorché possa servire da lezione. Dunque, anche il finanziamento delle imprese tramite Borsa è malcerto e, talvolta, non trasparente. Ma quando un mercato si trasforma da infrastruttura a industria esso stesso, questo accade.
Fusione a freddo
La fusione di Milano con Londra, d’altra parte, non aveva molto senso industriale per i clienti della Borsa. Secondo le chiacchiere esoteriche sulla globalizzazione, chi non è grande rende sempre un cattivo servizio. L’esperienza smentisce questo pregiudizio in molti casi. Borsa Italiana sembra essere uno di questi. Secondo un’indagine della Commissione europea del 2006, i costi di transazione di Borsa Italiana prima della fusione erano nettamente inferiori a quelli di Francoforte, Parigi e Londra per tutte le categorie di utenti e le quantità trattate. Lo stesso si deve dire della liquidità di piazza degli Affari: la turn over velocity, ovvero il rapporto tra il controvalore degli scambi e la capitalizzazione, viaggia sul 150%, meno del record pre crisi, il 208% nel 2006, ma più dell’anno di maggior espansione, il 2000, qundo arrivava al 112%. Si tenga conto che nel migliore degli anni Ottanta questo indicatore era al 43%.
Trent’anni fa, nel 1980, alla Borsa di Milano si scambiavano azioni e obbligazioni per 15 milioni di euro al giorno, nel marzo 2010 si viaggia sui 2.686 milioni (nel 2007 la media era di 6.248 milioni). A fine 2008, Milano è il primo mercato per contratti negoziati su Etf, e il terzo per controvalore, e il primo in assoluto sui bond.
Va dunque riconosciuto alla gestione di Massimo Capuano il merito di aver fatto crescere la piazza milanese, per quanto tali sviluppi interessino molto poco l’economia reale. Ma questi stessi dati rivelano come la fusione non aggiunga nulla all’efficienza del mercato e invece consegni il cash flow generato in Italia a una dirigenza senza patria, basata a Londra, che ha come obiettivo il massimo profitto, ed è perciò pronta a investire laddove ci si attende il ritorno migliore più che a tenere bene oliata e conveniente l’infrastruttura finanziaria milanese: se la Borsa di Bombay fosse la nuova mecca, Lse userebbe senza problemi i soldi «italiani» per comprarsela anziché investirli qui per migliorare ulteriormente il servizio.
Le banche che sono a un tempo società a scopo di lucro e infrastruttura del Paese, sul punto sono state disattente. E questo è un torto. E Capuano ha sbagliato i suoi conti, quando ha scoraggiato le fondazioni dall’intervenire in partita così da coagulare uno schieramento italiano ancora più forte del 29% di partenza: credeva di diventare lui il numero uno, per il primato tecnologico milanese la protezione che aveva assicurato a Clara Furse, e invece è stato scaricato.
Resta che è interesse dell’Italia avere una Borsa non solo grande e tecnicamente efficiente, ma anche ricca di titoli seri e non spazzatura. L’allentamento dei criteri di ammissione al listino, seguito alla privatizzazione, serviva alle banche e ai manager, non ai risparmiatori.
Massimo Mucchetti