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 2010  aprile 18 Domenica calendario

QUEI MESTIERI RISTRETTI CHE ALLEVIANO LA PENA

Il profumo del legno tagliato non te lo aspetteresti in un carcere. Inve­ce al pianterreno di una delle se­zioni del ’Lorusso e Cotugno’, più no­to come ’Vallette’, è normale vedere cinque falegnami fabbricare panchine per la cooperativa sociale Punto e a ca­po, i cui dipendenti sono detenuti. Con­tratto a tempo indeterminato, otto ore al giorno per produrre arredo urbano per i comuni piemontesi. La paga si ag­gira sui mille euro al mese, 52 restano al carcere per contribuire alle spese. L’i­nattività di ciascuno costerebbe all’e­rario circa 300 euro al giorno. Senza contare che il lavoro offre, una volta u­sciti, un buon punto di partenza per e­vitare di tornare a delinquere.
«Il prezzo della legalità aumenta il co­sto del lavoro rispetto all’esterno. Al­meno qui non si sciopera mai – scher­za Claudio Amisano, responsabile di questa cooperativa doc, a denomina­zione di origine carceraria – perché per queste persone il lavoro è la possibilità di ritrovare dignità».
Il carcere vanta un piccolo polo pro­duttivo di ben sette cooperative socia­li con 50 posti di lavoro che vanno a chi possiede alcuni requisiti: buona con­dotta, voglia di lavorare, famiglie da mantenere. Le coop, oltre all’impegno, hanno in comune la ricerca di qualità e sostenibilità. Ci mettono la creatività, in più aderiscono a consorzi esterni convenzionati con enti locali per pro­getti di inserimento lavorativo. Con committenti di peso, dalla Robe di Kap­pa alle municipalizzate che qui trovano qualità per mestieri perduti. Un vola­no che dal 2003 ha impie­gato almeno 250 persone perché alle ’Vallette’ con 1600 detenuti, metà dei quali immigrati, il ricam­bio è fisiologico. «Questo è un carcere circondariale, po­chi si fermano a lungo. Ciò nonostan­te – aggiunge Piero Parente della coo­perativa Ecosol che fa parte del con­sorzio Kairos e dal 2005 gestisce la cu­cina centrale per i detenuti della pri­gione – si investe sulla formazione dan­do fiducia a persone assunte a tempo indeterminato. Con il salario un dete­nuto riesce a metter via 600 euro da mandare a casa. Qui possono giocar­sela » . Per esempio Ecosol occupa 26 persone e progetta di espandersi. Dal 2008 confeziona prodotti gastronomi­ci per catering, entro l’anno aprirà una panetteria.
Raggiungiamo attraversando l’ampio cortile il capannone degli Ergonauti, dove due detenuti marocchini aggiu­stano parti di autobus e tram della Gtt, la municipalizzata dei trasporti. Mec­canica di precisione, come si diceva u­na volta. «La media di recupero pezzi della concorrenza – spiega il responsa- bile Demis Bielli – è del 94%, la nostra è al 97».
Il viaggio nel lavoro dentro il carcere di Torino prosegue dietro il profumo di caffè che porta nel laboratorio di Pau­sa Cafè dove mastri torrefattori hanno formato 5 detenuti per macinare e cuo­cere preziosi chicchi prodotti in Gua­temala, Ecuador e Costarica e confe­zionare lo Huehuetenango, presidio di Slow Food. « Sono prodotti del com­mercio equo – spiega il vicepresidente Luciano Cambellotti – che danno lavo­ro a detenuti. In più metà del ricavo annuo torna oltreoceano ai produtto­ri. Inoltre la cooperativa sta perfezio­nando un ciclo produttivo del cacao con alcuni maestri cioccolatieri». Pro­dotto etico al 100%. Nel settore Arcobaleno, a carcerazione attenuata, sono ospitati i tossicodi­pendenti in una sorta di comunità di recupero. Dal 2008 ha aperto un’atti­vità di serigrafia la coop Extraliberi. «Il laboratorio – spiega il pre­sidente Gian Luca Boggia – è il primo passo di un progetto del Comune det­to le virtù del lavoro. Qui si fa formazione, ma so­prattutto si imparano i trucchi del mestiere. Stampiamo a colori su indumenti da lavoro e capi tecnici per l’abbiglia­mento ». Accanto c’è l’aula di Eta Beta, dove si insegna informatica. Ha aperto nel 2003 e 3 detenuti mettono gli indi­rizzi sui bollettini Rai. Per ultimo il settore più duro, quello femminile. Le detenute alle spalle han­no in genere storie di strada e di vio­lenze, nessuno ha mai insegnato loro regole e ritmi del lavoro. Ci sta riu­scendo Silvia Braga, che ha dato vita a Papili. Impiega due nigeriane e una ro­mena, ma presto il laboratorio si allar­gherà. Con fantasia si è ricavata una nicchia che va dagli orli per i negozi al­la confezione di borse riciclando car­telloni in pvc o sacchi di iuta. «Vedia­mo queste donne recuperare l’orgoglio e la maternità, Abbiamo impiegato u­na donna rom madre di due figli all’e­sterno ». Chi entra in questo carcere e ri­ga diritto, insomma, può percorrere la nuova filiera del reinserimento.