Matteo Motolese, Il Sole-24 Ore 18/4/2010;, 18 aprile 2010
QUEL FALSARIO DI LEOPARDI
Nel dicembre del 1823, tre giorni prima di Natale, Leopardi scrive nel suo Zibaldone una breve nota sulla parola falso: «Al detto altrove in più luoghi di
falsus aggiungi. Falso per menzognero, finto, ingannatore»; appunta poi un riferimento al Don Quijote (letto pochi mesi prima) e chiude con una considerazione grammaticale. Poche righe, scritte probabilmente in una manciata di minuti. Di schede così lo Zibaldone è pieno. Qualche anno dopo, nel fare l’indice delle centinaia di pagine delle sue riflessioni quotidiane, non la comprenderà nemmeno.
difficile non leggere oggi in questa nota la traccia di qualcos’altro: mentre scrive la sua scheda erudita Leopardi ha infatti, sul tavolo, anche un falso. Lo ha preparato lui stesso per prendersi gioco dei linguaioli che infestano la sua epoca.
I falsari di marmi, raccontava Federico Zeri, lasciano le loro statue per giorni immerse nel tè. uno dei tanti modi per dare una patina d’antico a pietre intagliate da poco. Leopardi lavora con analoga sapienza. Per dare ai puristi ciò di cui sono più ghiotti, traduce in italiano un testo greco trovato nella biblioteca paterna: il racconto di una doppia strage di anacoreti avvenuta nel IV secolo. Poi comincia ad antichizzarlo: sostituisce periodi, singole parole, modi di dire. Un gioco di pazienza il cui ultimo stadio è testimoniato dall’autografo oggi conservato a Napoli. Per ogni prelievo, Giacomo segna la fonte nel margine sinistro del foglio. Non c’è quasi frase che non abbia il suo corrispettivo in un testo del passato. Anche un’espressione come «vanità del mondo», per noi molto leopardiana (ricordate«e l’infinita vanità del tutto», splendida chiusa di
A se stesso ?), è inserita perché presente in un’antica Vita di sant’Antonio abate.
Il testo è noto da tempo agli specialisti; uno studio di Sandra Covino,dell’Università per stranieri di Perugia, permette ora di guardarlo più da vicino e di inserirlo nel più ampio tema della contraffazione letteraria nell’Ottocento: in due volumi ricchissimi di dati il falso antico è descritto nei suoi vari aspetti (di moda, di mercato, di gioco erudito), esemplificato da un’antologia e soprattutto analizzato in relazione alla storia linguistica del nostro Paese.
Si tratta di un libro interessante. In questi mesi in cui l’Ottocento italiano vive una stagione di ribalta grazie all’anniversario dell’Unità, ci permette di guardare all’ultima vera crisi di crescenza della nostra lingua da un’angolazione privilegiata. Come scrive la Covino, infatti, falsi e parodie dell’italiano antico possono funzionare da «liquido di contrasto», «contribuendo a fare emergere con maggiore nitidezza i contorni della sensibilità linguistica coeva».
chiaro che il falso leopardiano (ma anche, se si vuole, la presa in giro della lingua secentesca che apre i Promessi sposi, scritta nello stesso periodo) è innanzitutto una reazione. Verso l’idea di un italiano musealizzato, bloccato, poco aderente alla realtà. Le pagine dello Zibaldone di quegli anni sono piene di testimonianze in tal senso: «Odio gli arcaismi,e quelle parole antiche ”scrive Leopardi nel 1821 – ancorché chiarissime, ancorché espressivissime, bellissime, utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa»; il che non vuol dire il rifiuto in blocco dell’antico: ci sono infatti «parole e modi disusati» che «sono così lontani da ogni senso di affettazione o di studio che il lettore il quale non sa da che parte vengano, non si può accorgere che sieno antichi ma deve stimarli modernissimi e di zecca ».L’equilibrio è difficilissimo. Non a caso scrivendo nel 1820 a Pietro Giordani – uno di quelli che auspicava un ritorno alla "semplicità" del Trecento – annovera tra le «tante cose [che ] restano da creare in Italia» proprio una lingua e uno stile«ch’essendo classico e antico,paia moderno e sia facile a intendere e dilettevole così al volgo come ai letterati». In gioco non c’è solo la bella pagina, ma una scelta culturale più profonda.
Il falso leopardiano nasce in questo clima, come un gesto di fastidio, una risata in faccia agli imbalsamatori della lingua e della cultura. Ma quando il testo fu pubblicato, nel 1826,quasi nessuno cascò nell’inganno. Giordani gli scrisse subito: «Niuno poteva dirmi il traduttore de’ martiri: ma non vuoi che io sappia che un solo ci è capace di far quella scrittura?». Troppo perfetto, insomma. Anche il fratello Carlo si era fatto vivo «Tu dunque hai pubblicato una nuova contraffazione letteraria? Babbo nel leggerlo non voleva quasi persuadersi che quella non fosse scrittura antica».
Lo stupore di Monaldo si tramuterà subito in emulazione. Farà un falso anche lui e lo invierà al figlio. possibile vedere in questo – di là dall’aneddotica familiare – un riflesso della cultura che contraddistingueva l’élite italiana del tempo. Il tasso di erudizione che aveva nel sangue permetteva anche a un dilettante come Monaldo di confezionare una finta leggenda trecentesca con una certa perizia. Lo stesso Giacomo ringrazia per «il monumento [ ... ] certamente antichissimo». Conta poco chiedersi se lo avesse davvero creduto tale. Val la pena di ricordare piuttosto che, nelle more della stampa della sua burla, aveva composto quel vertice d’intelligenza e di ironia che sono le Operette morali . Segno che, mentre giocava al gatto col topo con i pedanti del suo tempo, Giacomo era già altrove.