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 2010  aprile 18 Domenica calendario

ZOLA, IL FORZATO DELLA SCRITTURA

«Io sono un uomo di casa. Non sono buono a nulla se non ho la penna nel calamaio, quel quadro davanti agli occhi, questo panchettino sotto i piedi. Portato fuori dal mio nido sono finito». La robustezza di Emile Zola contrastava con l’espressione inquieta e il pallore malsano del suo viso, accentuato dal nero della barba. Riceveva gli intervistatori in vestaglia e pantofole, giocando macchinalmente con un tagliacarte a forma di pugnale. Il grande studio era pieno di quadri impressionisti. Sui libri e sulle carte, ordinatamente schierati sul tavolino, sostavano alcuni bibelot, tra cui un antico crocefisso d’avorio. Zola dormiva su un letto dalle colonne scolpite, ma, confessava, appena coricato, cominciava a pensare di essere in una bara. Tutti, diceva, lo pensano, ma non ne parlano per pudore.
Sceglieva quartieri tranquilli, per lavorare senza distrazioni. «Mi cullo nel lavoro, mi ci trovo bene come un pigro nella poltrona».
Abitava con la moglie, la madre, due cani e un gatto. Usciva il meno possibile. La sera, se non giocava a domino con la moglie, andava a trovare i colleghi o il suo editore. Malgrado il successo, era rimasto un timido e davanti agli sconosciuti si limitava a frasi brevi e taglienti.
Era convinto che si potesse raggiungere il pubblico solo con un’impressionante serie di opere. Il ciclo dei RougonMacquart doveva diventare l’equivalente della Commedia umana di Balzac, anche se specificava: «Non voglio ritrarre la società, ma una sola famiglia, evidenziando l’evoluzione della razza modificata dall’ambiente».
Credeva di poterci riuscire solo seguendo un rigoroso orario. Scriveva dalle nove alle dodici e mezza e dalle quindici alle venti. «Non credete che sia pieno di volontà, di natura sono la persona più debole e inerte che esista. Ho sostituito alla volontà l’idea fissa e starei male se non obbedissi alla mia ossessione». Il suo obiettivo erano tre o, alla peggio, due pagine al giorno. Scriveva seduto su una specie di trono portoghese di palissandro. «Sento il ritmo della frase, mi butto nella frase come ci si butta nell’acqua, senza timore». Infatti non gli piaceva correggere. A volte però la scrittura si inceppava, il cuore cominciava a battergli troppo forte e doveva fermarsi per settimane.
Se a tavola non c’era qualcosa di buono, Zola si immalinconiva. La golosità era il suo unico vizio. Non esitava a spendere in primizie e specialità costose. Le vongole lo mandavano in estasi. Non aveva dubbi sui tempi di cottura e sulle dosi. Spesso si affacciava in cucina, pronto a intervenire con un tocco da maestro. Una sera, a cena da lui, avevano servito potage di grano verde, lingue di renna, triglie alla provenzale e faraona al tartufo. Il libertino Alphonse Daudet aveva paragonato il pesce squisito alla carne, marinata in un bidet, di una matura cortigiana. In mezzo a quelle delizie, l’ipocondriaco Zola prendeva il bicchiere di Bordeaux con due mani: «Vedete come mi tremano le dita! » e cominciava a parlare dei suoi molteplici disturbi.
Quando iniziava un nuovo romanzo, seguiva una scrupolosa procedura.
Dopo avere steso un abbozzo di trama, tracciava il piano, una specie di sceneggiatura, dei possibili episodi, destinato a subire ogni sorta di modifiche. Poi creava un dossier, consultando ogni pubblicazione sull’argomento. A volte, come per la Fortuna dei Rougon, bastavano cinquanta pagine, altre volte, come per Germinal, ce ne volevano mille. I suoi nemici ironizzavano sulle rigorose perlustrazioni delle zone in cui ambientava le sue storie e sulle sue puntigliose piantine.
Zola prendeva appunti su tutto, dalle scenette che sorprendeva nella strada agli odori e ai rumori. Per Al paradiso delle signore,
aveva perlustrato per due mesi i grandi magazzini di Parigi, informandosi su ogni cosa: dall’organizzazione, alle tecniche di vendita, agli spogliatoi del personale. Per Nanà si era chiesto: «Dove va una cocotte? », e aveva cominciato a frequentare i teatri. «Osservo tutti i più minuti particolari della vita dello spettacolo; assisto alla toeletta di un’attrice». Non potevano mancare gli altri palcoscenici delle cortigiane, le corse dei cavalli e i ristoranti alla moda.
«L’Assomoir, si lamentava, è stato la mia tortura». Dopo essersi documentato sull’alcoolismo, aveva consultato un medico sulle sue conseguenze. Poi aveva dovuto informarsi sulle lavandaie e le tecniche di lavaggio. Ogni personaggio, anche quelli minori, aveva diritto a una scheda con il suo ritratto e l’età che aveva all’inizio del libro.
Solo quando aveva ben definito i personaggi e gli ambienti, iniziava a lavorare al libro vero e proprio.
Il realismo lo spingeva alla semplicità.«L’idea dove trasparire dalla scrittura con la solidità di un diamante nel cristallo del linguaggio». Sapeva però che i parigini compravano un libro solo quando era diventato un caso. «Purchè se ne parli, comunque se ne parli, è una fortuna. Solo il silenzio uccide». Ma era irritato dalle accuse di scandalosità che gli piovevano addosso. Persino un ammiratore come De Amicis confessava che bisognava avere uno stomaco forte per reggere a certe descrizioni realistiche di Zola.
Un giorno, era appena entrato con un amico in una brasserie del Quartiere Latino, quando una prostituta si era seduta vicino a loro.
Aveva aperto il giornale e, dopo, avere aperto la pagina sulla puntata di Nanà, aveva gridato: «Merda! Se non è osceno, non lo leggo!». Poco dopo Zola era scivolato via con la scusa che faceva troppo caldo.