Walter Riolfi, Il Sole-24 Ore 18/4/2010;, 18 aprile 2010
LA PARABOLA SNIA DAL DUCE A GNUTTI
Con l’insolvenza dichiarata dal Tribunale di Milano s’è chiuso l’ultimo capitolo della storia Snia. Non che la cosa abbia lasciato nello sconforto la finanza e l’industria italiana. Poichè, a parte qualche piccolo operatore che giocava a speculare sui pochi centesimi che ancora valeva il titolo in borsa, la decisione del Tribunale ha messo fine a una penosa agonia. Da qualche anno Snia era nella condizione di un malato terminale che dell’antica e gloriosa società non conservava altro che il nome. E quel nome ha scandito per quasi un secolo la storia dell’industria chimica italiana e dei costumi e della politica nazionale. Negli anni Trenta fu il simbolo della politica autarchica del fascismo celebrato nei versi enfatici di Tommaso Marinetti: «Ciò avveniva nel punto più torbido di passioni vegetali che divide il canneto dell’Autarchia dal nuovo porto Orgoglio Italiano», poetava a suo modo lo scrittore futurista nel celebrativo "Poema di Torre Viscosa" (1938). Il canneto era quello della "canna gentile", la soluzione autarchica escogitata per ricavare cellulosa senza dipendere dalle importazioni di legname; l’Orgoglio Italiano era la città fabbrica di Torviscosa nel Friuli, progettata dal razionalismo fascista per ospitare i dipendenti dello stabilimento: fino a 7mila durante gli inverni. Ma il vero simbolo dell’autarchia fu il Lanital,la fibra prodotta dalla caseina scoperta nel ’ 35 da Antonio Ferretti. Nella propaganda del regime divenne la risposta dell’autosufficienza italica alle sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni dopo la guerra in Etiopia.
La Snia nacque a Torino nel 1917 come acronimo di Società di Navigazione Italo Americana e si occupava di trasporti marittimi. Ma, con il crollo dei noli dopo la prima guerra mondiale, mutò denominazione e l’attività principale che divennne la produzione di fibre tessili e sintetiche. A crearla e a guidarla fu Riccardo Gualino, l’imprenditore biellese che portò l’azienda ai vertici del panorama industriale italiano. Geniale lo fu davvero Gualino,sebbene un po’ spregiudicato. «Un Cagliostro del mondo economico », lo apostrofò Benito Mussolini che nel ’31 lo spedì al confino per certe speculazioni finanziarie che si rivelarono fallimentari dopo la crisi del ’29. Già nel 1925 Snia vantava il maggior capitale sociale tra le imprese italiane e, siccome esportava l’80% dei suoi prodotti, fu anche la prima società del paese a essere quotata a New York e Londra. I guai vennero nel ’26 con la decisione di Mussolini di rivalutare la Lira (quota novanta): cosa che spinse Gualino a criticare apertamente l’iniziativa del Duce. Negli anni Trenta Snia trova in Franco Marinotti un nuovo dominus. Un padrone di fatto, visto che l’azionariato è adesso tutto in mani estere (l’inglese Courtaulds e la tedesca Glanzstoff): un capo carismatico che condurrà l’azienda per quasi tre decenni, traghettandola dal regime fascista ( del quale fu ardente sostenitore fino al ’43) ai difficili anni del dopoguerra, quando Snia si lancia in nuove acquisizioni (Pignone, Olcese) e diventa sempre più internazionale. Dopo la sua morte (’66), il gruppo trova un misurato equilibrio nell’orbita della Mediobanca di Enrico Cuccia, si fonde con Brombini Parodi Delfino e assume la denominazione di Snia Bpd. Passa per un po’ nelle mani di Montedison e nel 1983 in quelle di Fiat.
C’è una sorta di ritorno alle origini in questo, non solo perché Torino riprende le leve del potere, ma anche perché agli albori Snia ebbe come socio al 10% proprio Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat e stretto collaboratore di Gualino. Fu l’ultimo quindicennio di gloria per la società che acquisì la Caffaro, si lanciò nel settore aereo spaziale e, sotto la guida di Umberto Rosa, si allargò al biomedicale (Sorin). Ma la ricerca di nuove iniziative tradiva la crisi latente dell’intera industria chimica italiana e sotto questo aspetto la parabola di Snia ripercorre quella del comparto che un tempo fu secondo in Europa. Nel 1998 Fiat cedette in blocco la società con un’offerta pubblica di vendita che implicitamente valutava Snia 2.100 miliardi di lire (1,1 miliardi di euro), un po’ meno del fatturato (2.850 miliardi), 11 volte l’utile lordo. Si disse che quell’operazione fosse congegnata per far transitare il gruppo nelle mani di Cesare Romiti che nel frattempo aveva lasciato la guida della Fiat. La cosa non riuscì, perché la forte contendibilità del titolo richiamò una nutrita serie di finanzieri d’assalto: dapprima Luigi Giribaldi e Cornelio Valetto che rastrellarono quasi il 30% e, a partire dall’estate del ’99, Emilio Gnutti, astro nascente della finanza padana il quale, utilizzando società e personaggi legati a Hopa, lanciò nel 2002 un’opa sul 71%del capitale,valutando l’intera società 950 milioni di euro. Una miseria, reclamarono analisti, gestori e investitori che s’immaginavano chissà quale futuro e quali splendori per Snia nelle mani del nuovo Re Mida. Per questo gli consegnarono solo poche azioni, sufficienti tuttavia ad assicurare a Gnutti il controllo di un gruppo che nei quattro anni successivi venne fatto a pezzi e quel che rimase venduto nuovamente al mercato.