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 2010  aprile 19 Lunedì calendario

SU OBAMA L’OMBRA DI 13 UOMINI D’ORO

«La mia amministrazione è l’unica cosa che ancora rimane tra voi e le forche popolari». A parlare, con tono fermo, è Barack Obama, di fronte a 13 banchieri convocati alla Casa Bianca. Sono gli amministratori delegati dei più importanti gruppi di Wall Street, da Lloyd Blankfein di Goldman Sachs a Jamie Dimon di JP Morgan. una gradevole giornata di sole, quel 27 marzo 2009, per chi passeggia negli ariosi parchi di Washington. Meno propizia per l’economia globale, ricordano l’ex capoeconomista del Fondo monetario internazionale, Simon Johnson, e il consulente di McKinsey, James Kwak, in 13 bankers: the Wall street takeover and the next financial meltdown
( 13 banchieri: la conquista di Wall Street e il prossimo collasso finanziario) libro fresco di stampa negli Stati Uniti.
Un giorno poco felice- secondo gli autorinon solo perché a quel punto la borsa americana è arrivata a perdere il 40% nel giro di sette mesi,l’economia statunitense ha subìto un’emorragia di 4,1 milioni di posti di lavoro e il Pil mondiale per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale si trova in fase di contrazione. Ma perché quell’incontro primaverile simbolizza, più di altri, il "patto scellerato" stretto dall’amministrazione Obama con i big di Wall Street.La sceltadi proteggere in qualche modo i grandi banchieri dall’ira popolare, di condividere il destino con i manager che avevano generato il disastro, di sentirsi tutti su una stessa barca. «L’amministrazione Obama decise, come precedentemente quelle di George W. Bush e di Bill Clinton, che aveva bisogno di questo sistema finanziario, dominato da tredici banchieri», chiosano gli autori.
La tesi di Johnson, brillante docente alla Sloan School of Management del Mit e co-autore con Kwak anche del cliccatissimo blog
Baseline Scenario , è che Wall Street da vent’anni ha assunto un indebito potere su Washington. E il frutto avvelenato di questo "takeover" del potere economico su quello politico è che non si è colta l’occasione del crack del 2008 per effettuare una vera riforma del sistema finanziario.
A Obama i due economisti riconoscono di aver tentato di ottenere concessioni dai banchieri, per attuare una profonda revisione delle regole dell’economia e arginare stratosferici bonus, che fanno infuriare la gente. E a onor del vero proprio ieri, nel discorso radiofonico settimanale, il presidente ha affermato che se il Congresso non approverà la legge di riforma dei mercati finanziari gli Usa vivranno presto una nuova crisi che graverà sui contribuenti.«Ogni giorno di inattività - ha detto, riferendosi alle lungaggini dell’iter parlamentare - significa che lo stesso sistema che ha dovuto portare ai salvataggi rimane al suo posto, con gli stessi difetti».
Ma il risultato appare per ora deludente a Johnson. Anche il progetto di riforma presentato dal senatore democratico Chris Dodd non viene considerato sufficiente, in quanto si limita a delegare più potere alle autorità di controllo, invece d’istituire tetti alle dimensioni delle banche, ritenuti indispensabili. «Obama ha chiamato i 13 banchieri per salvarli nel modo più generoso mai immaginabile nella storia finanziaria - ribadisce Johnson, parlando di fronte a un annacquato cappuccino nel refettorio del King’s College di Cambridge- nessuna condizione, nessuna ripercussione negativa per le banche e per i manager che avevano portato al disastro. Il sistema di incentivi non è stato cambiato e la situazione è addirittura peggiorata negli ultimi due anni». Apre il suo libro a pagina 203 per additare un grafico che dimostra come le sei più grandi banche d’investimento (Morgan Stanley, Goldman Sachs, Wells Fargo, Citigroup, Jp Morgan Chase e Bank of America) abbiano aumentato le proprie attività in relazione al Pil americano, anche dopo la crisi. «Prima del settembre 2008 si poteva dibattere se esistessero banche troppo grandi per fallire - osserva Johnson - dopo quell’incontro alla Casa Bianca i partecipanti hanno saputo di esserlo. E così hanno continuato a ragionare all’insegna dell’adagio: meglio vanno le cose, più grandi dobbiamo diventare ».
Il co-autore Kwak, commentando dal suo blog le ultime inchieste su Goldman Sachs, precisa che «la crisi finanziaria non è stata creata da comportamenti criminali» e che, se anche ce ne sono stati, non hanno rappresentato l’elemento determinante di un crack, che sarebbe avvenuto anche senza alcuna palese infrazione della legge. Ma grazie a un’arrendevole compiacenza di Washington nei confronti del rampante clima di laissez
faire voluto da Wall Street.
Per questo Johnson e Kwak non ritengono che sia sufficiente reintrodurre la suddivisione tra banche di raccolta dei depositi e commerciali o di investimento, come previsto dal progetto Dodd, riecheggiando il Glass Steagall Act, approvato dopo la crisi del ’29 e abolito ai tempi di Clinton. «Ci dovrebbero essere dei tetti sulle dimensioni - sostiene Johnson - più alti per le banche che svolgono attività tradizionali e più restrittivi per chi opera come Goldman Sachs». Nel libro si specifica che sarebbe utile limitare a non oltre il 4% del Pil americano (circa 570 miliardi di dollari) il tetto delle attività di ogni istituto finanziario operante negli Stati Uniti, mentre per le banche d’investimento come Goldman Sachs il limite dovrebbe scendere al 2% del Pil Usa, (circa 285 miliardi di dollari). Limiti che imporrebbero riduzioni delle attività proprio delle sei banche citate precedentemente, che vanno da Bank of America con attività pari al 16% del Pil Usa a Morgan Stanley con il 5 per cento.
Fondamentale è per Johnson e Kwak scolpire questi interventi nell’ordinamento giuridico e non limitarsi a migliorare la supervisione finanziaria. «Anche se il governatore Ben Bernanke e i suoi colleghi sono diventati più sensibili ai problemi dei rischi finanziari - afferma l’economista del Mit - se non ci saranno regole chiare, la prossima volta che cisarà un’amministrazione repubblicana si ritornerà a lasciare totale libertà alle grandi banche».
Il rischio? Ritrovarsi nell’abisso di una crisi ancor più nera. Ma dov’è la prossima bolla? «Non credo sarà nei subprime o nei mutui risponde Johnson - perché lì ora si fa più attenzione. Potrebbe essere provocata dagli investimenti nei mercati emergenti. Ogni consulente finanziario che incontro mi dice: i mercati emergenti andranno benissimo, negli ultimi due anni sono andati meglio del resto, la Cina può solo salire».
Per l’economista c’è il rischio che si crei una spirale vorticosa con investitori asiatici che convogliano i guadagni in banche too big to fail negli Stati Uniti e in Europa, che a loro volta prestano i soldi ad altri operatori probabilmente anche nei mercati emergenti. « un po’ come riciclare petrodollari negli anni 70, è un ciclo che andrà bene per un po’ di anni e poi salterà per aria di nuovo - prevede Johnson- e quando salterà le conseguenze saranno ancor più dure per gli Stati Uniti». Per esorcizzare questi problemi, Johnson e Kwak si augurano che Obama e il Congresso dimostrino il coraggio di Theodore Roosevelt quando, nel nome della concorrenza, nel 1902 attaccò Northern securities, sfidando l’idea comune del tempo che i trust industriali fossero naturali. E che, per il bene del mercato, s’imponga una cura dimagrante all’oligarchia finanziaria delle grandi banche di Wall Street.