Edminud White, Libero 18/4/2010, 18 aprile 2010
STUDIARE PROUST ROVINA I GIOVANI SCRITTORI
Un sondaggio condotto non molto tempo fa in Inghilterra fra diversi autori e critici rivelò che lo scrittore di romanzi più ammirato del XX secolo e quello che si prevedeva avrebbe avuto l’influenza più duratura nel tempo era Marcel Proust. Di sicuro, la madeleine imbevuta nel tè è divenuta il simbolo più famoso della letteratura francese; la gente si riferisce alle improvvise ondate di ricordi chiamandole «esperienze proustiane». I più snob amano puntualizzare che se la famiglia Proust avesse avuto maggiore bon ton, e non avesse coltivato l’abitudine di intingere dolci nelle bevande, la letteratura mondiale sarebbe stata più povera. Anche chi non ha mai letto Proust spesso si sente libero di parlarne tranquillamente.
Lo studio di Proust può avere di certo un effetto disastroso su un giovane scrittore, che rischierebbe di subire l’influenza del suo stile, idiosincratico e contagioso, oppure credere che proprio Proust abbia già realizzato tutto ciò che è possibile realizzare attraverso la forma del romanzo. Persino Walter Benjamin, che divenne il traduttore tedesco di Proust, scrisse al filosofo Theodor Adorno di non voler leggere dello scrittore una sola parola di più di quanto non gli fosse strettamente necessario per la traduzione, perché altrimenti ne sarebbe diventato sempre più dipendente, e questo avrebbe danneggiato la sua personale produzione letteraria.
Graham Greene una volta scrisse: «Proust è stato il più grande romanziere del XX secolo, così come Tolstoj lo fu del XIX. [...] Per coloro che cominciavano a scrivere alla fine dell’800 e agli inizi del ”900 vi erano due grandi influenze alle quali non era possibile sfuggire: Proust e Freud, tra loro complementari». Di certo, la fama e il prestigio di Proust hanno eclissato quelli di Hemingway e Fitzgerald, di Gide, Valéry e Genet, di Thomas Mann e Bertolt Brecht, poiché, sebbene alcuni di questi scrittori siano più celebrati di Proust nei rispettivi paesi, quest’ultimo è l’unico a godere di una notorietà internazionale generalizzata.
Il giovane Andrew Holleran, che avrebbe pubblicato il più importante romanzo gay americano degli anni ”70, Dancer from the Dance, otto anni prima scrisse a un amico: «Robert, sono successe molte cose: finalmente ho finito Alla ricerca del tempo perduto e non so che cosa dire. L’idea che sia Joyce a proferire la parola conclusiva sul romanzo è totalmente assurda; è Proust che mette la parola fine al romanzo, semplicemente realizzando qualcosa di così completo, monumentale, perfetto; che cosa diavolo si può fare dopo di lui?».
IN TAXI CON JOYCE
Una volta Joyce incontrò Proust, e i due, benché condividessero un taxi, scambiarono a malapena qualche parola (e non si lessero mai l’un l’altro). Beckett scrisse su Proust un piccolo saggio critico; Virginia Woolf lo ammirava così intensamente da sentirsi inondata dal suo genio. Il più amaro rimpianto di Gide era l’aver respinto, da fondatore di una casa editrice nata da poco ma già prestigiosa, Dalla parte di Swann, il primo volume del capolavoro di Proust (egli lo considerava infatti uno snob superficiale e un mero cronista di eventi dell’alta società). Genet iniziò a scrivere il suo primo romanzo, Notre-Dame-des-Fleurs, dopo aver letto le pagine iniziali di All’ombra delle fanciulle in fiore. Questi si trovava in prigione e, giunto in ritardo nel cortile del carcere per lo scambio settimanale di libri, era stato costretto a prendere l’unico volume che tutti gli altri detenuti avevano rifiutato. Una volta lette le prime pagine dell’opera di Proust, tuttavia, chiuse il libro, desiderando assaporare ogni paragrafo il più a lungo possibile. E disse a se stesso: «Ora sono tranquillo, so che passerò di meraviglia in meraviglia». La lettura gli ispirò la scrittura: sperava di diventare il Proust del sottoproletariato.
Eppure, Proust non fu sempre così apprezzato, e anche i suoi più importanti difensori furono capaci di osservazioni sprezzanti nei suoi confronti. Robert de Montesquiou (del quale Proust amava imitare le arie di superiorità e la cadenza, e la cui vita offrì allo scrittore il principale modello per il suo personaggio più memorabile, il barone di Charlus) disse che l’opera di Proust era «un misto di litanie e sperma» (una formula che riteneva un complimento). Gide lo accusò di aver commesso «un reato contro la verità» (egli era irritato dal fatto che Proust non avesse presentato sotto una luce attraente le inclinazioni omosessuali). Lucien Daudet, un giovane scrittore con il quale Proust ebbe una relazione (gli piacevano i ragazzi con i baffi e gli occhi scuri: vale a dire, quelli che gli assomigliavano), in un’occasione disse a Cocteau che Proust era «un orribile insetto». Il padre di Lucien, Alphonse Daudet, uno degli autori più celebrati della generazione precedente a quella di Proust, benché oggi ampiamente dimenticato, proclamò: «Marcel Proust è il diavolo!».
AUTORI SPAZZATI VIA
E, d’altronde, appare chiaro il motivo per cui assunse tale posizione, dal momento che fu proprio il romanzo in sette volumi di Proust, Alla ricerca del tempo perduto, a surclassare – in realtà a spazzare via – tutta la prosa scritta nei due decenni prima di lui. Chi legge oggi Anatole France, Paul Bourget, Maurice Barrès, o proprio Alphonse Daudet?
Paul Claudel, il poeta e drammaturgo ultra-cattolico, descrisse Marcel come «una vecchia ebrea imbellettata». A New York, durante gli anni ”70, una popolare maglietta, ricorrendo a una parola yiddish che significa pettegola, brandiva lo slogan «Proust Is a Yenta»!
Questi insulti, molti dei quali elargiti da persone che a giorni alterni adoravano Proust, furono neutralizzati da un numero di «La Nouvelle Revue Française», la miglior rivista letteraria dell’epoca, dedicato interamente allo scrittore. Il numero uscì nel 1923, solo un anno dopo la sua morte, e conteneva fotografie del maestro defunto, frammenti di scritti mai pubblicati in precedenza, e giudizi della critica, francese ma anche di altre nazioni. L’aspetto più commovente erano le numerose testimonianze. La poetessa Anna de Noailles, lei stessa un monumento all’egotismo, lodava Proust per la sua... modestia. (Il duca di Gramont, uno degli amici nobili di Proust, in un’occasione disse che gli aristocratici invitavano quest’ultimo a partecipare ai loro fine settimana in campagna non per la sua arte, ma perché lui e Anna de Noailles erano le due persone più divertenti di Parigi.)
Tutti avevano dei ricordi intensi da condividere. Jean Cocteau, poetadrammaturgo-impresario-regista (La bella e la bestia), ricordava la voce di Proust: «La [sua] voce saliva dall’anima, come la voce dei ventriloqui dal ventre». Lo scrittore Léon-Paul Fargue rammentava di averlo visto verso la fine della sua vita, «pallidissimo, con i capelli fino alle sopracciglia, la barba, così nera da essere blu, che gli divorava il volto». (...).
GIOVANE ADULATORE
La grande Colette sbagliò completamente nel valutare Proust la prima volta che s’imbatté in lui (erano entrambi molto giovani e appena agli inizi come scrittori). Si era spinta talmente oltre, in uno dei suoi primi romanzi di Claudine, da chiamarlo «giudeo» (youpin), ma poi suo marito, con garbatezza, aveva cancellato l’insulto e lo aveva sostituito con «ragazzo» (garçon). Anche se ripulito, il brano non è affatto una lettura piacevole. Infatti, l’autrice afferma che, in un salotto letterario, era «stata assediata, gentilmente, da un grazioso giovane letterato». A causa dei suoi capelli corti, inusuali per l’epoca, lui continuava a paragonarla al giovane dio Ermete, o a un cupido dipinto da Prud’hon. «Il mio giovane adulatore, eccitato dalle proprie evocazioni, non mi lasciava più. [...] Mi contemplava con occhi carezzevoli, dalle ciglia lunghe».