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 2010  aprile 18 Domenica calendario

RIEDUCAZIONE, LE VITE A PERDERE

Ho conosciuto tanti ragazzi come Kang Zhengguo quando, negli anni Cinquanta e Sessanta, studiavo all´Università di Pechino. Erano miei amici, era facile comunicare con i cinesi allora, prima che la Rivoluzione culturale, nel 1966, troncasse ogni possibilità di confronto tra Noi e Loro. Quei ragazzi e quelle ragazze avevano tutti delle storie da raccontare, storie della loro infanzia e delle loro speranze, deluse al punto che erano diventati increduli e scettici sulla futura umanità che gli era stata promessa. Mi raccontavano le loro giovani storie del passato mentre vivevamo assieme un assurdo presente, episodi dei quali ero a volte testimone, a volte involontaria catalizzatrice. Frequentarmi era proibito in quanto venivo da un paese capitalista e quindi propagavo germi. Chi osava frequentarmi lo faceva a proprio rischio e pericolo.
Ne fece le spese, per esempio, Wang Zhangmei alla quale avevo regalato una mia giacca imbottita con una manica bruciacchiata. Per riscaldarmi mi ero accostata troppo al fornelletto elettrico che tenevo in camera e con me c´erano due amici cinesi che risero del mio infortunio. Quando però riconobbero come mia quella giacca con la bruciatura indossata dalla loro compagna di corso, la denunciarono alla sezione universitaria del partito. Zhangmei, che era già in odore di dissidenza, fu mandata poco dopo a «trasformarsi con il lavoro». Non l´ho più vista e non ho più saputo niente di lei.
Non ha scritto la sua storia come ha fatto Zhengguo, ma tutte le storie degli studenti cinesi di quegli anni per molti versi si assomigliano per il fatto di essersi svolte sotto il segno delle varie campagne di critica o di educazione di massa che si sono succedute come ondate fino al punto di far perdere la testa, di ridurre al silenzio i testimoni, di creare alla fine una connivenza tra carnefici e vittime.
E questa connivenza ancora è di ostacolo oggi, in Cina, al libero fluire della narrazione di quegli anni che non furono, come qualcuno sostiene, «grandi e terribili» ma soltanto terribili.
Ricordo una ragazza che studiava lingua e letteratura tedesca. Si chiamava Huang Hua. Era alta, con delle lunghe trecce e una naturale eleganza di portamento che nemmeno la più proletaria giacca blu riusciva a mascherare. Era in corso la campagna contro gli sprechi e ovunque, all´Università come in città, campeggiavano grandi cartelli con su scritto «Non sprecare nemmeno un chicco di riso». Lei venne accusata, in un´assemblea della sua facoltà, di voler «affamare il popolo», perché le compagne di stanza, rovistando nel suo cassetto, avevano trovato dei mantou, che sarebbero dei pani cotti a vapore, rinsecchiti. Lei si giustificò dicendo che li aveva conservati per portarli a una povera vecchia che elemosinava fuori dalle mura dell´Università. La seduta di critica era gremita da almeno due-trecento ragazzi che urlavano in preda a un´esaltazione allora per me incomprensibile. Era la prima volta che assistevo a un simile spettacolo. Poi capii che in simili occasioni bisognava che tutti si comportassero così, altrimenti sarebbero stati incolpati di simpatizzare per l´accusato di turno. Non erano in preda alla furia, recitavano. Avevano fatto salire Huang Hua in piedi su di una panca con indosso una specie di collana fatta con i suoi vecchi mantou. Le gridavano: «Abbassa la testa!», «Confessa!». Lei non riusciva a parlare, singhiozzava disperata. Un ragazzo le si scagliò addosso e le premette una mano sulla nuca obbligandola ad abbassare la testa, a sottomettersi.
Due giorni dopo quella ragazza si gettò dal quarto piano del suo dormitorio e morì sul colpo. Non ha scritto la sua storia, non ha avuto abbastanza anni per soffrire e raccontare la sua vita.
Di un´altra ragazza, la chiamerò Anne, ho invece seguito le vicende, dai giorni dell´Università a oggi. Venne accusata di essere un «elemento di destra» perché, alla trasmittente del campus dove prestava servizio volontario, lesse i comunicati «anti-partito» che le passavano studenti e insegnanti. Era l´inizio della «campagna dei Cento fiori», lanciata dal partito per sollecitare critiche e idee nuove: «Fioriscano cento fiori. Gareggino cento scuole!». «Non capivo neanche il senso dei testi che mi davano da leggere ma ero molto orgogliosa di essere stata scelta per la mia ottima pronuncia», mi disse Anne. Solo che quando, per controbattere le critiche che erano piovute sul partito e i suoi burocrati, venne lanciata la campagna contro gli elementi di destra, ad Anne venne messo in testa il cappello (si diceva così allora, il cappello da destrorso) e fu mandata a «lavarsi il cervello» in una vetreria.
Persi completamente ogni sua traccia fino a quando, morto Mao e salito Deng Xiaoping al potere, venni a sapere da amici francesi che era riuscita a raggiungere Parigi con un visto di studio. La rintracciai, ci incontrammo in Francia e a lei pareva di sognare. Anche a me. Eravamo ormai delle quarantenni con dei ricordi. Anne mi raccontò la sua storia: cinque anni in fabbrica, alla vetreria, due anni rinchiusa in una «gabbia di demoni e mostri», un marito defunto, un figlio che aveva abbandonato per poter «uscire dal paese», ma al quale continuava a scrivere tutti i giorni, o quasi. Anne era sincera, amava suo figlio, ma non era disposta a dare la sua vita, quella vita parigina da badante (era il suo primo impiego), per il ragazzo che aveva affidato alle cure di sua madre.
Anne era a Parigi quando, nel 1989, scoppiarono i fatti di Tiananmen, e suo figlio, a Pechino, era sceso in piazza con gli altri ragazzi. Fu arrestato, costretto a sconfessare sua madre, a rinnegarla perché tramava all´estero contro la Repubblica popolare cinese. La sconfessò, la ripudiò. Ora è un imprenditore di successo, uno dei milionari della nuova Cina. Me lo ha raccontato Anne pochi mesi fa. Le ho chiesto perché mai non andasse a trovarlo. E lei: «Neanche pensarci, non mi fido, non mi fido». Anne non aveva ancora ottenuto la cittadinanza francese e non si fidava.
Non avrebbe dovuto fidarsi nemmeno il nostro autore quando nel 2001 tornò in Cina con il suo passaporto cinese e ripiombò in un mondo di sospetto e delazioni che credeva scomparso.
In Cina nessuno ancora si fida, chi ha sofferto teme il ritorno dell´epoca delle ombre, delle umiliazioni, delle amicizie negate. Ma tutti quelli che hanno più di cinquanta, sessanta anni, avrebbero delle storie da raccontare, non storie estreme ma della loro quotidianità tanto segnata dagli eventi di una politica omnipervasiva. Se non lo fanno è perché ancora hanno paura. Preferiscono allora affidare la memoria alle immagini, alle foto di famiglia, piccole istantanee in bianco e nero con brevi ma intense didascalie che pubblica, dal 1996, una rivista che si chiama Vecchie foto. Immagini in bianco e nero accompagnate da semplici didascalie, storie tragiche di vita che riportano alla memoria collettiva il passato, meglio forse di tanta narrativa contemporanea in cui la fantasia non riesce a superare la crudezza della realtà, quel vivere giorno per giorno nell´assurdo ed essere costretti a farsene complici.
La memoria, in una società che sta subendo una grande mutazione e cioè non è più formata da persone che agiscono in un contesto comunitario e pubblico ma piuttosto familiare e privato, se non addirittura individuale, non è più ancorata come una volta a testimonianze e biografie di grandi uomini che hanno fatto la storia. La gente si sta riappropriando delle proprie storie minime, e sente il bisogno di rivalutare la propria apparizione sulla scena con immagini sbiadite di luoghi, di persone, di interni di famiglia o di foto di gruppo degli studenti di una scuola o degli operai di una fabbrica [...]. un passato privatizzato, non quello che è stato imposto ma quello che è stato vissuto, e si scopre che ognuno l´ha vissuto a modo proprio, anche se la grande livella del Potere ha sempre tentato di ridurlo allo stesso denominatore: la lotta di classe, la grande causa della rivoluzione, le campagne e i movimenti di massa.
La ragazza con le trecce e il viso pulito, i pantaloni larghi e la camicetta bianca a maniche corte che sorride sotto un cartello con la scritta «Grande balzo in avanti» è stata fotografata nel 1958 dall´uomo che sarebbe poi diventato suo marito. Nel breve testo che accompagna l´immagine, la donna, ormai settantenne, propone il ritratto del suo bambino e racconta come il padre non l´abbia mai visto perché, prima che il piccolo nascesse, «andò volontario nel Xinjiang a imparare dai contadini» e non fece mai ritorno a Pechino. Non traspare nessun giudizio politico, nessuna recriminazione, soltanto il desiderio che di quel marito e padre svanito nel nulla rimanga una traccia di ricordo anche se di lui non è rimasta neanche un´istantanea.
Tante sono le immagini di gruppi familiari, come se l´antica tradizione che glorificava le leggende e le storie degli avi rispuntasse in tono minore su queste pagine, dove gente che non ha legami di sangue con coloro che sono ritratti si riconosce tuttavia in particolari che accomunano, per esempio, quelli che vivevano in una casa a corte: l´arredo della stanza della famiglia che si è messa in posa in quel lontano giorno degli anni Quaranta assomiglia a quello di tante altre, con l´orologio a pendolo in bella mostra su di una consolle, l´ultimo nato in grembo alla madre avvolto in una coperta imbottita a fiori, il nonno con la corta pipetta in mano, la nonna con i piedi minuscoli che tenta di nascondere ripiegandoli sotto lo sgabello e non accenna nemmeno un vago sorriso.
Numerose anche le foto di classi scolastiche alla fine dell´anno di corso, gli insegnanti seduti in prima fila, dietro gli studenti, ragazzi e ragazze, vestiti tutti uguali ma non in uniforme: nella Cina degli anni Sessanta, dove il tessuto di cotone era razionato, non ci si poteva permettere di pretendere altra uniformità oltre quella imposta dalla penuria. E così tutti con gli stessi pantaloni, le stesse giacche imbottite di colore blu.
Nel testo che accompagna una di queste foto di classe, inviata da un uomo che specifica di essere il terzo, a partire da destra, della seconda fila, si dice soltanto che l´immagine è stata scattata nel luglio del 1966, nella Scuola superiore Numero Due di Pechino, e che loro speravano tutti di andare all´Università ma nessuno vi riuscì; e tutti i cinesi sanno perché, di lì a poco sarebbe divampata la Grande rivoluzione culturale proletaria.
Anche Kang Zhengguo, che si presume si sia liberato da ogni remora grazie a una drastica scelta di vita, a commento delle pagine della sua biografia inserisce delle vecchie foto di famiglia, come se sentisse la necessità di chiamare a testimoni quei volti e quei luoghi, per comunicare un di più, il non-dicibile [...].
 doloroso per un cinese smettere di essere tale, ci sono cose profondamente connaturate alla sua cultura. Il nome, per esempio, sempre prima il nome di famiglia (Kang, nel caso del nostro autore) seguito dal nome proprio, Zhengguo. costretto a rinunciarvi una prima volta quando accetta il nome di famiglia del vecchio contadino che lo ha adottato, e diventa Li. Avrebbe potuto conservare il suo nome proprio, ma rinuncia anche a quello scegliendone un altro che gli pare di buon auspicio, Chunlai, due ideogrammi che significano «arriva la primavera». Soltanto una speranza: per lui e per la Cina l´inverno era ancora lungo. Quando, anni e anni dopo, viene riabilitato, riacquista anche il suo nome e cognome ma, alla fine della vicenda, quando ottiene la cittadinanza e il passaporto americani, commenta semplicemente che, ancora una volta, aveva dovuto ridefinire la propria identità: «Questa volta il mio nome era Zhengguo Kang», scrive. E così firma queste sue memorie.
Sembrerebbe una modifica da niente, invece ha un significato intenso per un cinese, perché il nome davanti al cognome, secondo l´uso occidentale, in Cina si pensa che sottolinei l´individualismo, l´affermazione del soggetto rispetto alla famiglia, al clan. Un atto di ribellione, insomma. Come un atto di ribellione egualmente significativo è quello di non voler mai più rimettere piede in Cina. Neanche da morto. Zhengguo, a conclusione del lungo racconto della sua vita, dice alla moglie: «Quando saremo vecchi, ci preoccuperemo di farci seppellire in America».
Se questo libro è una «confessione» (come titola l´edizione originale), il finale è forse un´amara «sconfessione» della cinesitudine più profonda, quel modo di essere, di sentire e di rapportarsi di una civiltà tradizionale che vuole indissolubile il legame dell´uomo con la terra. Come d´inverno le foglie dell´albero che si spoglia fanno ritorno alle radici della pianta che le ha generate per rinnovarne il futuro rigoglio, così l´uomo deve essere sepolto là dove ha visto la luce. A questo si conformano, o per lo meno ambiscono, da generazioni e generazioni, tutti i cinesi della diaspora o dell´esilio. Ma Zhengguo e sua moglie vi rinunciano. veramente una «sconfessione» totale della cinesitudine? Se il capitolo finale non fosse dedicato al futuro del loro figlio maschio che decide di fare ritorno in patria, a Shanghai, con la sua laurea americana in Economia e commercio, così si potrebbe dedurre. Invece, il ciclo si rinnova in maniera fino a pochi anni fa impensabile. La cinesitudine si prolunga nell´ibridazione: per questo, per quel che vale, è salva.
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