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 2010  aprile 17 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 19 APRILE 2010 - «

la peggiore emergenza che abbiamo affrontato finora: perfino l’11 settembre, in confronto, non è stato un grosso problema»: così un operatore di Eurocontrol, l’agenzia europea che sovraintende al volo aereo, ha definito la settimana scorsa il caos nel traffico aereo (decine di migliaia di voli cancellati) scatenato in gran parte d’Europa dalla nube di cenere prodotta dall’eruzione in Islanda del vulcano Eyjafjallajokul. [1] Un portavoce dell’aeroporto londinese di Heathrow: « dai giorni del blitz aereo nazista su Londra nella seconda guerra mondiale che non vivevamo una crisi simile». [2]

Per quasi duecento anni Eyjafjallajokull è rimasto zitto sotto una coperta di ghiaccio ampia cento chilometri. Fabio Cavalera: «Si era appisolato nel 1823 dopo 600 giorni di frastuono. E anche allora aveva trasformato i suoi brontolii in potentissima eruzione interrompendo un altro paio di secoli (dal 1612) di assenza apparente. fatto così il piccolo ”Eyja eccetera eccetera”. Ha un largo cratere a 1600 metri di altezza con un tappo di neve. Si riposa poi, quando decide di ricordare all’Europa che pure lui esiste, dà fuoco alle polveri. E sono guai molto seri. Alla fine dell’ultimo marzo il vulcano ha pensato di darsi un’aggiustatina. Il meglio dello spettacolo (e della sofferenza) lo ha tenuto in pancia per i dì a seguire. Mercoledì, 14 aprile, ha lanciato il secondo botto, il più cattivo». [3]

Un ricognitore della guardia costiera islandese è volato sopra la testa del vulcano dal nome impossibile per guardarlo da vicino. Cavalera: «E ha fotografato i tre crateri di questo ”mostro” dispettoso. I due più piccoli larghi trecento metri, sono affiancati e sembrano gli occhi di un fantasma. Sotto c’è il terzo, che ha la forma di una bocca, enorme e spalancata. La montagna di ghiaccio e rocce è solcata da rughe che la tagliano orizzontalmente. La lava, il fumo, il gas si alzano per chilometri e il vento gioca, anche lui, portandoli dalla pancia dell’impronunciabile, l’Eyjafjallajokull, ora a est verso la Scandinavia e la Russia, ora a sud verso la Gran Bretagna e il continente, ora a ovest verso l’Atlantico». [4]

L’industria dell’aviazione scoprì la pericolosità dei vulcani il 24 giugno 1982. Marco Magrini: «Il volo British Airways 9, in viaggio da Londra a Auckland, si imbatte nelle ceneri del vulcano indonesiano Galunggung e, di lì a poco, tutti e quattro i motori del 747 si inceppano. Con un sangue freddo entrato nella leggenda, i piloti riescono a far planare l’aereo per 23 lunghi minuti, perdendo 11 chilometri di quota. Dopodiché, uno dopo l’altro, i motori si riaccendono e il volo 9 atterra a Giakarta senza vittime. Diciannove giorni dopo l’incidente del volo British Airways 9, un 747 della Singapore Airlines, passando dall’Indonesia, ripete la solita, brutta esperienza: tre motori del velivolo, per colpa del silicio contenuto nella cenere vulcanica, si bloccano. Ne segue un altro, miracoloso salvataggio. Ma, a quel punto, le autorità indonesiane decidono finalmente di chiudere il traffico aereo». [5]

«La polvere di vulcano per un aereo è come la kriptonite per Superman» (Antonio Pollino, Marina Militare). [6] Lo stop ai voli si è reso necessario per tutelare oltre alla sicurezza dei passeggeri quella dei velivoli, che anche se in grado di atterrare avrebbero potuto subire danni irreparabili. [1] Luca Saltelli, ingegnere aerospaziale: «Le particelle vengono ingestite a velocità elevate e le palette delle turbine si erodono». [7] Fabio Allori, comandante dell’Alitalia: «La nube ha lo stesso effetto della carta vetrata: può provocare dei danni importanti anche sui finestrini, sul parabrezza della cabina di pilotaggio che potrebbe completamente opacizzarsi». [8]

I danni economici causati dal blocco del traffico areo si contano a centinaia di milioni di euro. Spiegava venerdì Brent Bowen, titolare del dipartimento di Tecnologia dell’Università di Purdue: «In maniera analoga a quanto avvenne l’11 settembre molti aerei che adesso sono in transito da e per l’Europa vengono rimandati indietro a metà della rotta perché le torri di controllo ritengono non sicuro farli continuare». Sull’economia potrebbe prodursi un effetto moltiplicatore «destinato a continuare per un periodo difficile da prevedere». Destano preoccupazione soprattutto i prodotti deperibili trasportati dagli aerei cargo. Howard Archer, capo economista di Ihg Global Insight: «I materiali più a rischio sono quelli farmaceutici e subito dopo c’è il cibo». [9]

L’Organizzazione mondiale della sanità ha parlato di possibili effetti tossici connessi alla discesa a terra di grossi quantitativi di cenere, particolarmente a rischio i malati di asma e di altre malattie cardiorespiratorie. [1] Adriana Bazzi: «Il problema è che le particelle delle ceneri sono formate da silicio e hanno forme irregolari: possono quindi avere un effetto abrasivo sulle vie aeree. ”Non solo’ spiega Leonardo Fabbri, direttore della clinica di malattie respiratorie dell’Università di Modena’ il biossido di zolfo può essere assorbito da queste particelle, combinarsi con l’acqua e trasformarsi in acido solforico. E mettere in pericolo bronchi e polmoni”. In altre parole, si potrebbe creare una situazione simile a quella che si verifica nei casi di elevato inquinamento ambientale». [10]

Polveri e gas possono avere effetti dannosi anche sul cuore. Bazzi: «Le particelle più piccole entrano in circolo e aumentano il rischio di infarti e crisi ischemiche». [10] La Stampa: «Mescolato alle emissioni del vulcano c’è anche un flusso tossico di fluoruri, i cui effetti sulla salute dell’uomo e dell’ambiente sono molto pesanti. la lezione dell’ultima eruzione dell’Eyjafjallajokull, che non durò qualche giorno ma due anni, dal 1821 al 1823, e diffuse fluoruri su tutto il Paese, con una catena di avvelenamenti che partì dai terreni dove brucava il bestiame e finì negli stomaci umani. Le prime vittime furono le pecore e le mucche che pascolavano sui fianchi del vulcano, poi toccò ai cavalli e agli uomini». [11]

Detto che anche stavolta Eyjafallajokull potrebbe continuare ad eruttare per mesi, se non per anni, al momento la principale preoccupazione sta nel ghiacciaio circostante che sta scivolando all’interno del vulcano. Varner Marzocchi, dirigente di ricerca dell’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia): «Eyjafallajokull non è di tipo esplosivo (come lo è il Vesuvio) e dunque, l’unica causa che può produrre esplosioni di una certa intensità è proprio quella legata al ghiaccio che finisce all’interno delle sue bocche». Freysteinn Sigmundsson, vulcanologo dell’Università d’Islanda: « il ghiaccio che, trasformandosi improvvisamente in vapore rende le lave esplosive, eiettandole anche fino ad 8-9 km d’altezza». [7]

Tutta l’Islanda può essere considerata come un unico grande vulcano. Enzo Boschi, presidente dell’Ingv: «Altro non è che un tratto di dorsale oceanica emersa in superficie. Le dorsali sono le lunghe fratture sottomarine che separano due zolle terrestri e da cui fuoriesce una grande quantità di magma. In più, l’Islanda si trova in quello che i geologi chiamano un ”punto caldo”, da cui il magma fuoriesce da lungo tempo direttamente dal mantello terrestre». Nel momento in cui si è innescata l’eruzione dell’Eyjafallajokull alcuni geologi hanno ipotizzato un possibile, analogo fenomeno in un altro vulcano islandese, il Katla. Luigi Bignami: «Il risveglio di quest’ultimo, in tempi recenti, ha originato la formazione di giganteschi fiumi in seguito allo scioglimento del ghiaccio sovrastante». [7]

Crea preoccupazione anche il Grimsvotn, che sorge sotto il più grande ghiacciaio d’Europa, il Vatnajokull. La Stampa: «Nella zona sono state registrate piccole scosse di terremoto e le condizioni sono simili a quelle che precedettero la sua ultima eruzione, nel 2004. A rischio è poi anche l’Hekla, il vulcano più famoso (e temuto) d’Islanda, che dal 1979 è entrato in fase eruttiva più o meno ogni 10 anni, l’ultima proprio nel 2000». [11] Nel 1783 il vulcano Laki (sud dell’Islanda) scatenò la sua violenza eruttiva riversando nell’atmosfera 120 milioni di tonnellate di biossido di zolfo che causarono migliaia di morti in Inghilterra e sul continente. Giovanni Caprara: «Sull’intera Europa i gas scatenarono persistenti anomalie meteorologiche accentuando il caldo estivo e il freddo invernale, provocando acute gelate e disastrose inondazioni con conseguenti distruzioni dei raccolti». [12]

L’eruzione di Laki abbassò la temperatura per la proprietà dello zolfo di riflettere la radiazione solare creando una sorta di effetto serra alla rovescia (per questo fra le folli idee per fermare il global warming c’è quella di irrorare l’atmosfera con lo zolfo). Il guaio è che prima o poi accadrà di nuovo qualcosa del genere. Secondo il vulcanologo Thorvaldur Thordarson «potrebbe essere l’anno prossimo o fra cent’anni. Ma succederà. Ovviamente non lungo la vecchia frattura di Laki, che era un vulcano monogenetico: in altre parole, una lunga e stretta fessura che, nel raffreddarsi, si ricuce. Ma potrebbe succedere di nuovo, soltanto 50 metri più in là. E quando accadrà, sarà un altro Big One. Il traffico aereo non si fermerà per cinque giorni, ma per cinque mesi». [13]

La più potente eruzione vulcanica del XX secolo, quella del monte Pinatubo (Filippine) del 1991, produsse abbastanza ceneri e gas da abbassare la temperatura media globale di 0,5 gradi per due anni. [5] Mario Tozzi: «Per fortuna i morti sono stati solo mille (200 mila gli evacuati). Ma vasti appezzamenti di terra sono ricoperti dalla cenere, mentre oltre 40 mila edifici vengono devastati dalle nubi ardenti. La parte superiore del vulcano viene spazzata via dalla potenza dell’eruzione che eietta nell’atmosfera 10 chilometri cubi di ceneri, scorie e lapilli in colonne alte fino a 40 chilometri. Sulle Filippine il cielo rimase scuro per settimane nel cuore dell’estate e le ceneri raffreddarono l’atmosfera, mentre in tutto il Sud-Ovest Pacifico le temperature dell’aria si abbassarono di colpo». [14]

I vulcani, da sempre, cambiano il clima e la storia. Si dice che nel 1815 la sconfitta di Napoleone a Waterloo fu dovuta più all’abbassamento della temperatura causato dall’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, che dal talento dei suoi avversari. Tozzi: «Anche nel mese di giugno le temperature non salivano (neanche nei pressi di Bruxelles) e immensi nuvoloni - innescati dalla grande quantità di pulviscolo in circolo - si aggiravano per l’atmosfera raggiungendo località lontanissime dal centro di emissione. Napoleone aveva un punto di forza nella cavalleria leggera che - proprio in quel frangente - si trovò a essere, invece, irrimediabilmente appesantita dal terreno troppo fangoso dopo giorni e giorni di pioggia». Il 1816 è rimasto nella storia come «l’anno senza estate». [14]