Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  aprile 17 Sabato calendario

QUEL TERMINE ADOTTATO DA ASHBOURNE

Origine, superfluo evocarla, britannica. Da otto secoli. Strumento di gioco, una sfera policroma quattro volte più grande d’un normale pallone. Regole, inesistenti, un fritto misto di calcio e rugby. Unici divieti, strangolare o uccidere l’avversario, nascondere il pallone, trasportarlo verso la porta avversaria su un veicolo motorizzato, violare la sacralità del cimitero e dei giardini delle chiese. Giocatori, con qualsiasi parte del corpo, tutti gli abitanti di Ashbourne, suggestivo centro della contea del Derbyshire, zona d’antichi insediamenti romani, e da qui si comprende da dove derivi la sigla che infiamma la vigilia di Roma-Lazio. Campo di gioco, le oltre tre miglia in lunghezza del territorio cittadino, con reti allestite nei punti estremi della città, nord e sud, Up’ards e Down’ards. C’è un piccolo fiume di mezzo, ma vale anch’esso come campo di gioco. Il calendario colloca il Royal Shrovetide Football Match nell’ultimo giorno di Carnevale, martedì grasso, con possibilità di sconfinare nel mercoledì delle Ceneri ove lo scontro non venga risolto nelle otto ore previste, inizio alle quattordici, chiusura alle ventidue. L’inizio della partita, secondo inossidabile tradizione d’oltre Manica, viene preceduto dal canto a voce piena dell’inno del Commonwealth. Poi, da una sorta di gazebo collocato al centro di Ashbourne, il lancio della sfera e l’incipit di una guerra ruvida e ringhiosa e tuttavia divertente, un’ubriacatura collettiva, una rissa plebea senza risparmio di colpi. Nulla di sorprendente. Tutto il mondo è paese. In casa nostra, il 15 maggio, partendo da Piazza Grande dinanzi all’immensa maestà del Palazzo dei Consoli, tutti gli abitanti di Gubbio indenni nel fisico e divisi nelle tre contrade titolate ai Santi Antonio, Giorgio ed Ubaldo, secondo un rito eccitato in cui religiosità e liturgia pagana sono un tutt’uno, trascinano su salite impervie fino al monte Ingino i tre quintali d’ognuno dei candelotti di cera. Ad Ivrea, una volta l’anno, a Carnevale, da metà Ottocento, non c’è parentesi più dilettevole che scaricarsi addosso tonnellate d’arance. Meno cruente, su iniziativa del dodicesimo conte di Derby, sempre avendo come sfondo la località inglese, le battaglie d’ippica che dal 1780 si aprono sul miglio e mezzo del celebre tracciato di Epsom alla corsa riservata a purosangue di tre anni. Da quell’epoca, l’Italia e Roma comprese, mezzo mondo s’è appropriato dell’etichetta, identificandovi la prova nazionale più importante del galoppo.