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 2010  aprile 17 Sabato calendario

ISLANDA, LA TERRA DEI MOSTRI

Quando tornai a Roma da Reykjavik, gli amici mi chiesero: «L’Islanda è bella? Ti sei divertito?» Ora, l’Islanda non appartiene alla categoria della bellezza: la bellezza è una cosa divina, o umana, o di una natura fatta a somiglianza dell’uomo e di Dio.
Mentre l’Islanda non conosce i nostri dèi, forse nessun Dio, e non fa parte nemmeno, come diceva Manganelli, della natura. Consiglio a tutti, poveri e ricchi, un viaggio in Islanda. Andarvi è un’esperienza sconvolgente e tragica, che non assomiglia a nessun altro viaggio. All’inizio del ventunesimo secolo, uno vi trova le origini della terra, la fine dell’universo, le metamorfosi dei vulcani, gli incubi della natura e dell’uomo, l’Ade, gli abissi, i miracoli dell’acqua e del fuoco. Per due o tre settimane, supera tutti i limiti e le difese, che la cauta mente dell’uomo ha costruito nei secoli tra sé e l’ignoto.
Se vogliamo comprendere questo paesaggio sconvolgente e teatrale, dobbiamo rileggere la Genesi: secondo la Bibbia e secondo la mitologia nordica. In entrambe, esistono due creazioni. Nella prima creazione biblica, al principio, anzi prima del principio, c’è qualcosa: tenebre e vuoto e deserto e abisso e la superficie delle acque, sulla quale aleggia il soffio di Dio. Molto più tardi, non sappiamo quando, avviene la seconda creazione. Dio crea dal nulla, con la parola, la luce. Crea dal nulla il firmamento, il sole, la luna, le brulicanti creature del mare, i volatili, gli animali della terra, l’uomo: separa la luce e la notte, l’acqua e la terra, e invita la terra, madre dei viventi, a generare germogli, l’erba verde, l’albero da frutto. Sebbene abbia utilizzato la materia della prima creazione, la seconda è radicalmente nuova: i gesti di Dio obbediscono a un ordine e a un’armonia, mirano a un fine. Da queste pochissime pagine (come dall’idea greca di cosmo), dipende l’immagine occidentale della natura.
La Genesi nordica è profondamente diversa. Anche qui, c’è una prima creazione. All’inizio dei tempi, «quando nulla esisteva, non c’era sabbia né mare né fresche onde; non c’era la terra né il cielo lassù, c’era il baratro degli abissi, ma non c’era l’erba»; su questo baratro non aleggiava nessuno spirito di Dio, perché nella mitologia nordica gli dèi non sono eterni né nascono all’origine dei tempi, ma dopo. Vicino al baratro, qualcuno (non sappiamo chi) creò due mondi, egualmente mostruosi e malvagi: uno, che occupa il Nord, è la dimora del freddo, dell’umido, del buio e del velenoso; l’altro, nel Sud, della luce violentissima, del fuoco e del caldo insostenibile. La vita nasce dall’incontro tra questi estremi negativi: la brina gelida del Nord incontra il venticello caldo del Sud; si scioglie e gocciola, dando origine a ciò che vive. Il primo frutto di questa goccia è un gigante, Ymir: da lui, generazione dopo generazione, nascono gli dèi, tra i quali Odino, che discendono dunque dal Mostruoso. Poi gli dèi uccidono Ymir e con lui, tranne uno, la stirpe dei giganti. Alla fine, creano il mondo, il nostro mondo attuale, o almeno quello in cui vivono gli islandesi. Questa è la seconda creazione: ma, a differenza della biblica, quella nordica viene fabbricata interamente con gli elementi della prima creazione: il baratro degli abissi, gli spazi del gelo e del fuoco, la goccia originaria, il corpo dei giganti. Col capo di Ymir viene fatta la terra, col sangue il mare e le acque: con le ossa le montagne, con i denti anteriori e i molari le pietre; col cranio, la volta del cielo: con le sopracciglia, un recinto al centro del mondo, che accoglie la stirpe umana; col cervello le nuvole.
Questo paese è l’Islanda, dove il mare è il sangue dei mostri, la terra la carne, le montagne le ossa, le pietre i denti, e persino il cielo e le nuvole ricordano il cranio e il cervello di Ymir. Non c’è traccia di dèi, nemmeno di Odino: gli dèi, qui, non sono ancora nati, o nessuno li ha mai visti; tutto è caos, violenza, ghiaccio e fuoco, sia pure pietrificato. Il ghiacciaio maggiore, il Vatnajökull, è vasto come l’Umbria: poi ci sono gli altri, lo Snaefallsjökull, il Langjökull, lo Hofjökull, il Myrdalljökull, residui di un’antica calotta glaciale che ricopriva tutta l’Islanda. La cosa singolare è che molti ghiacciai hanno un vulcano o più vulcani nel ventre: qualche volta, il vulcano sta ancora più in fondo, sotto la superficie del mare. Non si capisce subito quale sia il rapporto tra il ghiacciaio e il vulcano. Talvolta sembra che il vulcano, annidato nelle profondità, voglia soltanto distruggere il ghiacciaio: la violentissima eruzione della lava scioglie il ghiacciaio, che crolla su sé stesso, come un enorme mostro impaurito e indifeso. In realtà ghiaccio e fuoco sono complici: la lava ardentissima e l’acqua sciolta si uniscono, si alleano, si fondono in un’immensa onda di piena, che può raggiungere settanta metri, devastando la terra e minacciando l’Oceano.
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Il viaggiatore che attraversa l’Islanda, ammira in primo luogo l’immaginazione del fuoco, o della natura vulcanica. In nessun paese che abbia visto, certo non in Europa, ho mai incontrato una fantasia così grandiosa: trovo paragoni solo in letteratura; in Shakespeare, questo poeta di ghiaccio e di fuoco. Come dicevano i greci, la natura gioca; e giocando assume tutte le forme e i colori: umana, disumana, sovrumana. Non c’è altro che metamorfosi ininterrotta, che per un momento si è placata: ma che ha appena ripreso le sue invenzioni, visto che cinquant’anni fa un’isola è uscita all’improvviso dal mare, e ciò che accade in questi giorni. Qui non c’è quasi roccia o pietra, che consideriamo l’elemento più solido, ma sopratutto lava: fuoco trasformato e pietrificato.
Il primo mutamento è il più semplice: la spaccatura. Dovunque profondissime e lunghissime fessure e crepe si aprono nel suolo: formano gallerie e tunnel: scendono fino negli abissi; sotto, l’acqua è caldissima, centinaia di gradi, ed esalazioni e fumi impennacchiano la terra, come per ricordare la presenza del fuoco. La natura vulcanica non ama le superfici piane: vuole movimento, agitazione, rilievi, scavi. Così innalza per sette chilometri una roccia: Almannagià, che ricorda le mura ciclopiche di Tirinto, e abbassa di molte decine di metri un grande lago, Thingvallavatn, che si estende ai suoi piedi.
Quanto ai colori, non è facile comprendere cosa la natura vulcanica preferisca. Perché ora sceglie il nero più desolato e sinistro: per decine di chilometri, si avanza in deserti di cenere e pomice, dove nemmeno un lichene può crescere, e che nelle giornate di cielo sereno scintillano come una pianura vetrificata. Nulla è più terribile di una regione non lontana da Reykjavik, dove i monti sono neri, la pianura nera, la strada asfaltata nera, e lungo la strada sono disposte tubature moderne, che portano l’energia termica a Reykjavik, in una mostruosa unione tra prima creazione e tecnica moderna. Qualche chilometro più in là, lo spettacolo è completamente diverso. Il fuoco ama i colori: le distese di fango bollente non hanno una tinta omogenea, ma sono marrone scuro, giallo ocra, rosa, rosso, violetto, blu-grigio, arancione o quasi bianco: tinte ora più tenere ora più accese, come se quel fango bollente fosse la tavolozza abbandonata da un grande pittore - suppongo Tiziano -, che si è nascosto nel cuore del fuoco.
Come tutti sappiamo, il fuoco ama gli spettacoli del teatro: il suo istinto principale è scenografico. Così il vulcano e il terremoto abbassano gli strati del basalto: creano dislivelli; e di lì si gettano acque, le cascate. Ora sono plumbee, come Dettifoss, che sembra annunciare la fine del mondo: ora sono luminose e scintillanti, accompagnate da un vibrante e sonoro arcobaleno, come Gullfoss, dove la corrente scende polverizzandosi da una balconata all’altra. In ogni caso, sembrano inventate dallo scenografo di un’opera di Verdi e di Wagner. Quanto ai geyser, il fenomeno più popolare dell’Islanda, inventando i geyser, la natura vulcanica mostra il suo lato buffonesco e fanciullesco: si prende gioco di sé: assomiglia a un acrobata sulla rete, a un clown che salta su sé stesso, a un soprano che gorgheggia per il suo pubblico estasiato. Quando si va a Strukkur, vedi una pozza, che ogni tanto romba e gorgoglia e borbotta e brontola, tale è la forza di espansione che la possiede. Per un po’ tace: lancia un potentissimo getto d’acqua surriscaldata e di vapore, che raggiunge i settanta metri: torna a nascondersi per dieci minuti; e infine lancia un nuovo getto, che questa volta fallisce o riesce a metà, come se l’acrobata avesse sbagliato il salto, cadendo goffamente nella rete. Non credete troppo ai geyser: sono un’esibizione da circo, dietro la quale il terribile fuoco si nasconde.
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Mi impressionano molto di più le creazioni di forme, nelle quali la natura anticipa l’arte, oppure la segue, come se volesse dimostrare che natura e arte sono la stessa cosa, che anche il fuoco ha i suoi Fidia, i suoi Bosch, Michelangelo e Rembrandt e Goya e Doré. Questo desiderio della forma percorre, senza tregua, la vita del mondo, attraverso decine di migliaia di anni, fino ad oggi. Se vai sulla riva del mare a Reynisfjar, o presso la cascata di Svartifoss, vedi decine di lunghe colonne basaltiche rettangolari o esagonali: ora sono parallele, ora curve, ora intrecciate, ora piegate ad angolo retto e troncate; ora sembrano - dicono le guide con saggia retorica - gigantesche canne di un organo naturale; o pendono, strato sotto strato, come grappoli di pietra. A Kirkjubajerklaustur, la lava forma piastrelle esagonali, simili a quelle di un pavimento di chiesa.
A Dimmuborgir, presso il lago Mývatn, trionfa follemente il grottesco e il contorto. Le invenzioni della lava, che hanno appena duemila anni, rivelano forme zoomorfe, come orribili animali delle origini o grifoni araldici del Medio-Oriente o lupi o balene, collegati fra loro in intrecci fantastici. Sembrano palazzi romanici appena crollati, o cattedrali del tredicesimo secolo, con portali arcuati in colori diversi. Spesso, in mezzo alla lava, c’è un grande foro, come se la natura ci invitasse a vedere qualcosa aldilà - non sappiamo se acque, nuvole o uccelli, o mostri. Talvolta, la costruzione si arresta a metà, perché il fuoco, come Michelangelo vecchio o Rodin, ama il non-finito. A Dimmuborgir, la natura sogna, delira, ha incubi, come un poeta romantico che viveva d’oppio o di hashish.
Noi tutti pensiamo che la lava sia sterile e desolata: la cosa più sterile della terra; e certo le pianure di cenere e pomice escludono perfino la più lontana ipotesi che una goccia di vita possa fertilizzarle. Così pensava Leopardi nella Ginestra, davanti ad un altro vulcano, il Vesuvio. Ma aveva torto. La lava recente è sterile: ma se passano migliaia o decine di migliaia di anni, il veleno del magma si attenua, si forma uno strato di terra, e la lava si copre di coltri foltissime, umide e dolcissime di muschio, come se il fuoco pietrificato fosse la vera sede della umida vita.
Se risali la valle di Thorsmökdov, vedi dovunque fiori alpini: il trionfo del rosso, del giallo, del viola, del celestino. Persino i licheni diventano fiori. I fiumi sono pieni di pesci: trote, anguille e salmoni nuotano dove una volta dominava la sterilità della lava. Il cielo è pieno di uccelli, che trovano qui la loro terra privilegiata, o si tuffano nelle acque. Sembrano più colorati e splendenti di quelli dei nostri climi, come se il fuoco avesse acceso, mescolato, reso rutilanti i colori.
Il fuoco apre anche le porte dell’oltretomba. Nel settentrione del paese, il lago Mývatn deriva il suo nome dalle mosche e dai moscerini, e ricordiamo che anche Belzebù, re dell’oltretomba, è il signore delle mosche. Intorno ci sono vulcani attivissimi, laghi azzurri nei crateri, solfatare colorate, magma recentissimo che avvolge da ogni parte una chiesa di lava: fumi escono dalle spaccature, la terra romba di continuo. C’è un’aria di continua minaccia. Il lago, che comprende cinquanta isole e isolotti, per lo più pseudocrateri, è perennemente avvolto dalla nebbia e dal silenzio: tutto è grigio, opaco, immobile, senza luce; il silenzio è rotto soltanto dalle grida degli uccelli acquatici, dagli squittii delle piccole papere che cercano di risalire il fiume Laxá e dal fruscio dei moscerini invisibili; ma questi gridi e fruscii rendono più immortale il silenzio. Fra poco - pensiamo - arriveranno gli spettri dell’Ade che appaiono nell’Odissea. Ma questo Ade islandese non allontana la vita: la attrae; e centinaia di uccelli, migliaia di trote e di salmoni nuotano verso il regno della morte, dove a maggio e giugno si schiudono i ditteri.