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 2010  aprile 16 Venerdì calendario

CARLO FRUTTERO, "COM´ STATO BELLO RIUSCIRE A VIVERE ESCLUSO DA TUTTO"

Si chiude Mutandine di chiffon - il nuovo libro di Carlo Fruttero pubblicato da Mondadori - con un senso di malinconica e divertita calma. Dentro le pagine scorrono i ricordi: la famiglia, la scuola, la guerra, gli amici cari, i personaggi illustri, i libri letti, storie a volte allegre a volte dolorose. Siamo di fronte a una piccola autobiografia, senza pretese cronologiche o di importanza, sorretta da uno stile cui non fa difetto né la grazia né l´acume. Da tempo Fruttero non vive più a Torino. Vado a trovarlo nella sua casa marina di Roccamare. Qui passa ancora le sue estati Pietro Citati, qui trascorreva le sue vacanze anche Italo Calvino. Raramente veniva Lucentini: «Franco non amava il mare, non poteva soffrire il vento che qui è forte, e poi era coperto di nei che sconsigliavano l´esposizione al sole. Quando arrivava, alloggiava in un albergo su una collina non lontana. Ma si vedeva che era insofferente, desideroso di tornarsene nelle sue terre. Ero soprattutto io che lo andavo a trovare».
Le mancano le telefonate quotidiane, gli incontri, la sua presenza?
«A un certo punto devi adattarti a quello che è accaduto. La vecchiaia è un aggiustamento continuo con cacciavite e chiave inglese. Tiri avanti. Anche la morte di Franco l´ho dovuta mandar giù e adesso quando scrivo, quando penso è come se mi sdoppiassi. Ho provato a vedere con il suo occhio questo mio libro e non sono sicuro che lo avrebbe del tutto approvato. Alcune cose non le ho inserite proprio perché gli sarebbero parse fatue».
Come lettore posso rassicurarla. un libro ironico, struggente e divertito. Mai cattivo.
« un libro lontano dalle battaglie, dagli insulti, da quell´intensità di opinioni che oggi quasi tutti hanno. Mi spaventano le persone sicure di ciò che dicono, che parlano di politica, di economia, di letteratura imponendoti cosa occorre o non occorre fare. Mi tengo alla larga dai gestori della verità. Leggendo da ragazzo Monsieur Teste, trovai una frase che allora mi colpì molto: Teste, scrisse Valéry, n´avait pas d´opinion. Questo è sempre stato il mio ideale al quale mi sto avvicinando da vecchio».
Leggere, viaggiare, ascoltare è anche formarsi delle opinioni.
«Lei crede che sia ancora possibile? Viviamo in uno stato di confusione permanente, in giro c´è molto chiacchiericcio e poca verità umana. La passione dei libri è stata soprattutto fine a se stessa: un divertimento, prima di ogni altra cosa».
Ricorda il primo libro che ha letto?
«Mi pare fosse Il corsaro nero: "Uomini del vascello! Alt o vi mando a picco", credo cominciasse così il romanzo di Salgari. Avrò avuto cinque anni, me lo leggeva una domestica veneta di nome Palmira. Da allora ho vissuto di libri e devo dire che questa curiosità di leggere tutto, di infilare il naso in ogni pagina, la considero una fortuna immensa. Ancora oggi mi arriva una quantità rilevante di libri: dalla storia di Roma al giallo svedese, non c´è testo che non mi incuriosisca».
A proposito di gialli svedesi, che oggi vanno per la maggiore, ha letto anche Stieg Larsson?
«L´ho trovato deludente. Non c´è ragione che i suoi romanzi finiscano, si può andare avanti per pagine, pagine, pagine, all´infinito. Non amo il romanzo di accumulazione. Certo, con Lucentini abbiamo scritto dei romanzoni, forse con dentro troppi temi, ma avevamo chiaro dove approdare. Una storia va contenuta, stretta tra un inizio e una fine».
Ecco l´esperto di editoria. Con Lucentini avete lavorato a lungo nella casa editrice Einaudi. Dai ricordi emerge che eravate un po´ due corpi estranei, insofferenti e refrattari tra l´altro alle scelte politiche dettate da Giulio Einaudi.
«La casa editrice fiancheggiava il Pci. Einaudi si era forse persuaso che il comunismo fosse una forma di nuovo illuminismo. Pensa te! Tanti in buona fede hanno creduto a questa favoletta. Ma non ho mai capito le scelte misteriose di personaggi quali Italo Calvino o Giulio Bollati. Come potevano dirsi comunisti? Non vedevano, loro in genere così acuti e intelligenti, che in Unione Sovietica e nei paesi vicini si passava da una censura all´altra, da una repressione all´altra?».
Che ricordo personale ha di Einaudi?
«Indubbiamente fu un eccellente editore. Ma anche un divoratore di persone. Tipico dei sovrani: sceglieva uno, gli concedeva i suoi favori e poi senza una ragione precisa lo distruggeva. Conosceva l´arte, chiamiamola così, di mettere l´uno contro l´altro: divide et impera. Praticava queste cose d´istinto, non credo che le avesse imparate. Devi essere tagliato per esercitare il potere. E nel potere conta soprattutto il lato meno nobile».
Dal potere culturale lei si è tenuto fuori. Non l´attraeva?
«Ho evitato di diventare come quegli intellettuali carichi di onorificenze, invitati a tenere seminari in prestigiose università, a fare i giurati dei maggiori premi, contesi dai giornali e dalle televisioni; di essere parte di un mondo esclusivo e inebriante. Non eravamo, posso dirlo anche a nome di Franco, posseduti dal demone della visibilità e del successo».
Però di successo ne avete avuto tantissimo.
«Non lo abbiamo cercato. venuto e lo abbiamo accettato senza perdere la testa. E non ci piacevano le consorterie, le adulazioni, i veleni. Sorvegliavamo la situazione, spalla a spalla, con le pistole all´erta. Ci siamo difesi benissimo. Siamo rimasti esclusi da tante cose, ma nello stesso tempo abbiamo condotto una vita tranquilla. Una vita in parte fortunata, con i soliti disguidi, non ultimo quello della vecchiaia».
Come se la immaginava e come la vive?
«Non me la immaginavo. Speravo di scivolare pian piano, solo che questo scivolare arriva e vedi che ha degli aspetti insopportabili che finisci con il sopportare lo stesso. Sono molto accudito: le figlie, la badante, i nipoti. Mi procurano tutto quello che chiedo. un sollievo poter contare su di loro. Ma la vecchiaia non è un gran divertimento. Per fortuna ci sono ancora i libri. Ho appena finito di rileggere Cuore, un testo ben combinato».
In che senso?
«Sembra un manuale di propaganda sovietica che De Amicis scrive in perfetta buona fede immaginando una possibile coesione sociale dell´Italia dopo l´unità. Il tipo di italiano che immagina è esattamente agli antipodi da quello descritto da Collodi in Pinocchio che è un capolavoro straordinario, attraversato da una voracità geniale».
Collodi come descrive l´italiano?
«Furbo, scatenato, goloso, mentitore, cuore d´oro ma traditore: con quel naso! pronto a ogni avventura, anche la più improbabile: promesse a non finire e mai mantenute. Mentre invece l´italiano di De Amicis va a scuola, rispetta i compagni, è solidale con i poveri: da Cuore proviene il severo monito, da Pinocchio il marameo. Ho l´impressione che oggi a prevalere sia quest´ultimo».
A proposito di "marameo" lei ha voluto come titolo al suo libro "mutandine di chiffon", ironico, scanzonato, ma forse anche spiazzante per chi la conosce un po´.
« sprezzatura pura. Citati voleva che lo intitolassi "La notte del telegramma", ma io tenevo a una certa leggerezza. In realtà, le mutandine non ci sono e, cosa deplorevole, è un libro dove io parlo di me. Ma lo faccio senza pensare di essere Vittorio Alfieri. Una sera, mentre correggevo le bozze, mi è capitato di vedere un pezzo de L´isola dei famosi e ho pensato che con quel pubblico eravamo al capolinea di una civiltà. E me ne è venuta una malinconia spaventosa. Poi però è vero che c´è ancora gente che legge, che pensa, che non guarda solo la televisione».
Le è piaciuta la sua vita? orgoglioso della coerenza che nel tempo ha mostrato?
«Orgoglioso direi di no. Di cosa dovrei vantarmi? A metterla molto semplice posso dire che ho sempre seguito un unico principio: io speriamo che me la cavo. Non ho mai pensato al di là di questo. E adesso che la morte si avvicina spero solo che non mi faccia male».
La teme?
«Non mi fa paura, ho un po´ d´ansia per il fatto che al momento possa soffrire e dopo non so. Con Franco ne discutevamo. Lui diceva: "Guarda Carlo, non se ne può parlare in senso proprio. Va considerata come un viaggio". Ecco, stiamo a vedere che cosa sarà questo viaggio. La morte è inverosimile. Perché quello che succede dopo non è raccontabile. E allora fino a quando non senti bussare i primi colpi, non ci credi, non ti sembra possibile».
Parlava dell´ansia che questo pensiero a volte le procura.
«Ho il tormento di lasciare figlie e nipoti a soffrire per colpa mia. Ma non posso cambiare niente: così è la vita e così finisce. Sono stato fortunato, ma al tempo stesso ho incassato colpi terribili. E per dirla come un pugile: non sono caduto al tappeto, ho continuato il mio incontro di boxe. E alla fine "io speriamo che me la cavo" è stato un buonissimo lume che mi ha accompagnato e mi ha fatto dire: intanto questa cosina ce l´ho e per il resto si vedrà. Ho vissuto senza aspettarmi molto, anzi senza aspettarmi niente. E se ti convinci che non ci sono speranze e che il mondo è impazzito, da quel momento in poi puoi vivere benissimo. Scherzi, ridi, conversi, perché quel problema lì lo hai chiuso. Non ci puoi fare niente e allora ti resta tutto il bello della vita».