Marco Vassallo, Il Riformista 14/4/2010, 14 aprile 2010
QUEI PROCESSI DAL FUTURO INCERTO UTILI SOLO ALLA STAMPA
Roma, 7 aprile: la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 21 persone e 16 società, nell’inchiesta sulla fallita scalata a Bnl. Sotto accusa Consorte, Caltagirone, Fazio, Coppola, Ricucci e altri. Aggiotaggio, insider trading e ostacolo alle attività di vigilanza i reati contestati agli indagati. L’inchiesta è partita 5 anni fa.
Milano 9, aprile: frode sui diritti tv, dopo 5 anni di indagini, chiesto il rinvio a giudizio di Berlusconi per appropriazione indebita e frode fiscale. L’inizio dell’udienza preliminare, destinata al rinvio per la legge sul legittimo impedimento, sarà fissato non prima di fine giugno.
Due indagini durate oltre 5 anni (sintomo di difficoltà di ricerca della prova), dal forte appeal mediatico, il cui esito appare incerto e i cui processi impegneranno i tribunali per anni, con conseguente sottrazione di energie, risorse e tempo ad altri procedimenti che si avvieranno a certa prescrizione.
Chi decide quali indagini vanno portate avanti e quali messe in secondo piano? Chi, quali processi celebrare e quali no? L’ordinamento costituzionale è incardinato sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: tutte le notizie di reato raccolte dalle Procure vanno indagate. Il criterio direttivo per l’esercizio dell’azione penale è la sostenibilità dell’accusa in giudizio.
Nel processo, è il giudice che stabilisce ritmi e cadenze. In teoria, dunque, tutte le notitiae crimiminis ritenute fondate dovrebbero avere pari dignità di accesso al processo e parità di trattamento davanti al tribunale. La realtà, tuttavia, è arricchita da un dato di fatto: il numero ingestibile di procedimenti rispetto alle risorse disponibili. Così, i tempi di durata massima delle indagini sono costantemente violati, non tutti i processi seguono le medesime tempistiche, non tutti i reati sono perseguiti e per molti le indagini non vengono mai svolte.
In questi casi, il principio di obbligatorietà dell’azione penale si risolve in mera petizione di principio: salva la forma, violata la sostanza. Un manifesto che cela la discrezionalità dei singoli PM, ai quali è demandata la decisione in ordine a quali notizie di reato perseguire e quali lasciare languire negli armadi. Tale potere di scelta, ancorato a criteri meramente soggettivi, generalmente è esercitato in buona fede, ma presta il fianco all’accusa di arbitrio.
Quanti processi andranno prescritti per celebrare quelli BNL e Mediatrade? E’ accettabile che, in un ordinamento democratico che dovrebbe fondarsi sul principio di responsabilità, tale decisione sia rimessa a singoli funzionari dello Stato, che mai saranno chiamati a risponderne? La soluzione del problema richiede realismo: non è possibile, né auspicabile, aumentare le risorse della giustizia. Si impone una scelta: l’abbandono del feticcio dell’obbligatorietà dell’azione penale, demandando al Parlamento la responsabilità politica della fissazione di criteri di priorità oggettivi, con sanzioni per il mancato rispetto; ovvero – e questa sarebbe, a mio avviso, la soluzione auspicabile – la riduzione del numero dei procedimenti, abbandonando l’inutile politica panpenalistica. Ciò che è inaccettabile è il perpetuarsi dell’attuale ipocrisia.