Sergio Romano, Il Corriere della Sera 11/4/2010, 11 aprile 2010
NON CI SAREBBE DA STUPIRSI SE VARSAVIA CREDESSE AL COMPLOTTO
Il corpo del generale Wladyslaw Sikorski, primo ministro del governo polacco in esilio durante la seconda guerra mondiale, riposa nella cattedrale di Cracovia. Ma il suo scheletro è stato riesumato un anno e mezzo fa nell’ambito di una ennesima indagine sulle cause della sua morte. Non sarei sorpreso se gli stessi dubbi e le stesse ipotesi accompagnassero le indagini sull’incidente aereo di Smolensk, la morte del presidente Lech Kaczynski, e la decapitazione dello Stato polacco. Chi crede ai complotti troverà fra i due avvenimenti alcune interessanti analogie.
Sikorski aveva avuto una parte considerevole nella politica polacca fra le due guerre: primo ministro e ministro della Difesa all’inizio degli anni Venti dopo la restaurazione della Polonia, rivale di Jozef Pilsudski e esule a Parigi dopo il colpo di Stato del maresciallo nel 1926, nuovamente in campo verso la fine degli anni Trenta e capo del governo ombra che gli esuli polacchi avevano creato a Londra dopo la disfatta e la spartizione del Paese fra tedeschi e sovietici nel 1939. Nei mesi che seguirono l’invasione hitleriana dell’Urss, Sikorsky, in omaggio alla nuova alleanza fra la Russia e gli Alleati, aveva ricucito i rapporti diplomatici con Stalin. Ma nell’aprile del 1943, con una mossa che era stata motivo di fastidio e imbarazzo per il governo sovietico, aveva chiesto a Mosca di aprire una indagine sulla morte dei 22.000 ufficiali polacchi di cui i tedeschi, qualche mese prima, avevano rinvenuto i cadaveri fra gli alberi della foresta di Katyn nei pressi della città di Smolensk e non lontano dal luogo in cui l’aereo di Lech Kaczynski è precipitato nelle scorse ore.
Pochi mesi dopo, in luglio, Sikorski era Gibilterra con sua figlia Zofia e un gruppo di ufficiali polacchi in attesa di un aereo che lo avrebbe riportato a Londra. Pilotato da un ufficiale ceco, il Liberator decollò il 4 luglio, ma rimase in cielo pochi secondi prima di inabissarsi nella baia della colonia britannica. Fra i cadaveri riemersi dalle acque non vi era, misteriosamente, quello di Zofia. Esplose immediatamente la ridda dei sospetti. Un semplice incidente o una riuscita operazione di sabotaggio? Un omicidio mirato progettato dai sovietici, ansiosi di creare per la Polonia del dopoguerra un governo comunista? Un’operazione dei servizi britannici, desiderosi di eliminare l’uomo che stava guastando in quel momento le relazioni con Mosca? Vi fu addirittura, molti anni dopo, una interpretazione ancora più fantasiosa e affascinante. Apparve quando un giornalista scoprì che il direttore della sezione dell’MI6 (l’intelligence del Regno Unito) nella zona di Gibilterra era Kim Philby, uno dei «Cambridge Five», i cinque brillanti intellettuali che negli anni Trenta erano passati al servizio dell’NKVD, vale a dire dell’organizzazione responsabile dei 22.000 cadaveri rinvenuti nelle foreste di Katyn.
Con questi precedenti, non è difficile immaginare quali e quante ipotesi verranno formulate nei prossimi giorni sull’incidente dell’aereo di Kaczynski. Il Tupolev del presidente polacco era diretto a Smolensk per la celebrazione del settantesimo anniversario del massacro di Katyn. Kaczynski era certamente poco amato a Mosca. Aveva sostenuto le rivoluzioni colorate e anti-russe dell’Ucraina e della Georgia. Aveva entusiasticamente accordato agli americani il permesso di costruire una base antimissilistica in territorio polacco. Era andato in Georgia per dare man forte al presidente Mickeil Saakashvili dopo la guerra con la Russia dell’estate 2008. Ed era con il presidente georgiano quando un aereo, durante la sua visita, aveva preso di mira il loro convoglio.
Chi scrive non crede ai complotti e alla loro importanza determinante nelle tragedie della storia. Ma non è necessario essere «complottisti» per riconoscere che questi sospetti sono profondamente radicati nella tradizione e nella memoria della nazione polacca e rappresentano quindi un problema politico. Vista da Varsavia la storia del Paese, dal Settecento alla Guerra fredda, è un lungo rosario di vessazioni e ingiustizie. Fu più volte aggredito e alla fine smembrato dai suoi potenti vicini, Austria, Prussia e Russia. Gli esuli delle sue grandi rivolte cercarono rifugio nelle capitali delle democrazie europee e combatterono valorosamente nei loro eserciti, ma ottennero soltanto un sostegno morale. Lo Stato rinato nel 1918 fu nuovamente smembrato da Russia e Germania nel 1939. Quando la resistenza polacca insorse contro i tedeschi nel 1944, l’Armata Rossa attese sulle sponde della Vistola che la Wehrmacht completasse la «purga» della sua classe dirigente, così meticolosamente iniziata dall’NKVD nella foresta di Katyn. Dopo l’avvento del comunismo i polacchi furono, con gli ungheresi, tra i primi a scendere in piazza per chiedere libertà. Lo fecero coraggiosamente nel 1953, nel 1956, nel 1980.
Il «cattivo», in questa rappresentazione della storia nazionale, è certamente la Russia, zarista o comunista. Ma ai polacchi non spiace ricordare che alla cordiale simpatia delle democrazie occidentali non ha corrisposto, se non occasionalmente, un aiuto concreto. Quando il Paese fu aggredito, nel 1939, gli Alleati dichiararono guerra alla Germania ma non all’Urss. Quando l’Urss s’impadronì del Paese, stettero a guardare. Quando gli operai di Danizica dettero vita a un nuovo movimento politico, l’aiuto venne soprattutto dal Papa.
Qualcuno potrebbe osservare che la vittima può spesso compiacersi del proprio stato, cancellare la memoria dei propri trascorsi e dimenticare che nessun Paese è interamente innocente. Anche la Polonia è stata un impero e ha aggredito, conquistato, sottomesso. Quando i russi riconquistarono la loro libertà nel 1612, il nemico contro il quale dovettero prendere le armi era la Polonia, allora padrona di Mosca. Quando la Russia bolscevica stava nascendo, il suo primo e più agguerrito nemico fu la Polonia, decisa a riconquistare le terre ucraine e bielorusse che avevano fatto parte del suo impero due secoli prima. Dopo il ritorno alla libertà, alla fine della guerra fredda, la sua politica ucraina e georgiana è stata spesso, agli occhi di Mosca, invasiva e imprudente. Nella storia vi è quindi un’abbondante materia per reciproche accuse e recriminazioni. Se ne saranno consapevoli, i russi e i polacchi, nei prossimi giorni, eviteranno di ripetere gli errori del passato avanzando sospetti e assumendo posizioni che nuocerebbero, in definitiva, a entrambi.