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 2010  aprile 14 Mercoledì calendario

NOI, DEPRESSI COME GORILLA

La depressione è un fenomeno biologico che ha la sua origine, per cause evolutive, da geni antichi». La definizione sibillina è di Colin Hendrie, biologo e psicologo evoluzionista, che sulla base delle più recenti ricerche nel campo delle neuroscienze e dell’antropologia avanza un’ipotesi inedita sull’origine dei disturbi dell’umore.
Benché siano varie le cause che possono scatenarla, la depressione si manifesta perché siamo geneticamente predisposti. « la traccia fossile di dinamiche inconsce - spiega - che un tempo conferivano vantaggi alle comunità primitive di ominidi». Hendrie e i colleghi del gruppo di neuroscienze comportamentali della facoltà di medicina dell’Università di Leeds, Gran Bretagna, l’hanno scoperto studiando i gorilla dalla schiena argentata: sono loro un «modello animale» rappresentativo dei ruoli gerarchici che con ogni probabilità regolavano la vita sociale dei nostri progenitori.
Professore, perché in un lontano passato la depressione avrebbe dovuto rappresentare un vantaggio?
«Non è un’ipotesi paradossale. La genetica insegna infatti che un carattere oggi sicuramente dannoso per l’uomo potrebbe derivare da un pool di geni che un tempo servivano a tutt’altro, certamente anche a conferire caratteristiche vantaggiose».
In pratica che cosa significa? Può fare un esempio?
«Pensiamo alla beta-talassemia, nota come anemia mediterranea. una malattia genetica che conferisce all’emoglobina una forma anormale, eppure chi possedeva questa caratteristica ai tempi in cui la malaria era endemica sopravviveva più dei non-anemici, perché il plasmodio - l’organismo responsabile della malaria - non riesce ad attecchire negli eritrociti in cui l’emoglobina è mutata».
Quali legami ci sarebbero quindi tra geni e depressione?
«Quando un individuo, a causa dell’età o di gravi ferite dopo un combattimento o un incidente, perdeva lo status di maschio dominante, era escluso dalla comunità. Solo se rinunciava alla competizione per le femmine e per il cibo otteneva di essere reintrodotto e di continuare, anche se da ”emarginato”, la vita in società. Quindi, tra chi si ritrovava più vulnerabile, avevano più chances di sopravvivere quelli che, per carattere, accettavano la condizione di vivere ai margini».
Significa che in determinate condizioni la selezione naturale avrebbe privilegiato gli «umili»?
«Dal momento che questo ”modus vivendi” era vantaggioso in certe condizioni, si è conservato nei geni. Di fatto, gli ominidi che perdevano potere e influenza potevano lasciare il gruppo, ma rischiavano di morire. In alternativa potevano scegliere di rimanere nel gruppo a una condizione sociale inferiore. Noi ipotizziamo che la depressione fosse il meccanismo che permetteva ai dominanti sconfitti di passare a una condizione sociale inferiore e, attraverso questa, avere, anche se notevolmente ridotta, ulteriori probabilità di sopravvivenza».
Ma qual è il legame tra la depressione «utile», di cui parla lei, e la depressione moderna, scatenata per esempio da una delusione?
«Proprio come nelle antiche società di ominidi, la riduzione della propensione alla competizione come modalità di autopreservazione sociale si osserva anche nei moderni gorilla dalla schiena argentata. L’evoluzione ha quindi lasciato una traccia negli animali moderni e - crediamo - anche nell’uomo. Questa autopreservazione non è altro che la riduzione degli stimoli vitali: la postura schiva, l’evitare il contatto visivo, la diminuzione dell’appetito e della libido sessuale. Inoltre i depressi hanno un sonno ridotto. Dal punto di vista evolutivo anche questa è una caratteristica difensiva, perché assicura un picco di attenzione durante la notte».
Perché queste dinamiche ancestrali si attivano ancora nell’uomo moderno?
«Ogni volta che il cervello primitivo percepisce che la sopravvivenza è minacciata dalla propria condizione sociale si attiva automaticamente questa preservazione adattiva, capce di mettere l’individuo in ”stand-by”, privandolo di stimoli che lo metterebbero di fronte a molti pericoli potenziali: non è un caso che la depressione emerga in chi perde importanti legami sociali, con il partner o con il lavoro, oppure in seguito a una malattia».
 una teoria interessante, ma ci sono delle prove?
«Gli studi di Yvette Sheline della Washington University School of Medicine hanno dimostrato che il cervello di pazienti depressi presenta un funzionamento notevolmente ridotto delle cellule gliali, speciali neuroni che rappresentano il 90% di tutte le cellule cerebrali e che servono a scambiare nutrienti, neurotrasmettitori e altre sostanze con il sangue. Il malfunzionamento delle cellule gliali inficia la comunicazione tra cervello primitivo, quello interno, e la corteccia, esterna, che è evolutivamente più giovane e che possiede una funzione inibitoria sulle zone interne».
Quali sono le conseguenze?
«Nei pazienti depressi prevale l’attività del cervello primitivo: questo - costituito dal terzo ventricolo, la ghiandola pineale, l’ipotalamo, il nucleo accumbens e, quindi, il sistema limbico - è la sede delle emozioni viscerali, come i ritmi sonno-veglia, la sete, l’appetito e del circuito alla base dei meccanismi di ricompensa. Poiché queste zone, nei depressi, risultano iperattive, tutte le dinamiche ancestrali geneticamente fissate emergono più facilmente».