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 2010  aprile 13 Martedì calendario

NO ALLA DITTATURA DELLA LIBERTA’ SUL WEB

Non c’è peggior dittatura di quella esercitata in nome della libertà assoluta». Così scrive il giudice monocratico Oscar Magi nella motivazione della sentenza con la quale il 24 febbraio scorso tre manager americani di Google sono stati condannati per violazione della legge sulla privacy a sei mesi di reclusione ciascuno.
Una citazione finale che il giudice considera necessaria per chiarire che se da una parte «non esiste un obbligo di legge codificato che imponga agli Internet provider un controllo preventivo delle innumerevoli serie di dati che passano ogni secondo nelle maglie dei gestori o proprietari di siti web», d’altro canto «non esiste nemmeno la sconfinata prateria di Internet dove tutto è permesso e nulla può essere vietato, pena la scomunica mondiale del popolo del web». In mezzo, ricorda il giudice, ci sono le regole. In questo caso di semplice chiarezza nell’indicare ad esempio i limiti nelle violazioni della normativa della privacy ai danni di terzi a chiunque voglia pubblicare su un Internet provider - sia questo un mero gestore o un produttore di contenuti - una propria personale produzione: il vero reato in cui sarebbero incorsi i manager condannati, consentendo che per oltre due mesi circolasse su «Google Video» il filmato di un ragazzino autistico insultato e vessato dai suoi compagni di classe di un liceo torinese.
Respingendo infatti la tesi dell’accusa che voleva considerare Google responsabile di un omesso controllo dei contenuti, il giudice Magi imputa alla società americana di aver consentito un incremento del traffico video sul proprio sito a fini commerciali nascondendo nelle condizioni generali del contratto gli obblighi derivanti dal rispetto della normativa sulla privacy. Utilizzando insomma il vecchio trucco delle assicurazioni che una volta aggiungevano le postille più importanti dei contratti scrivendole in corpo minuscolo e confondendole in un mare di norme. questa la vera accusa che viene rivolta a Google. «In parole semplici -spiega il giudice - non è la scritta sul muro che costituisce reato per il proprietario del muro ma il suo sfruttamento commerciale può esserlo, in determinati casi e in presenza di determinate circostanze». Ciò nonostante, il giudice riconosce che «se anche l’informativa sulla privacy fosse stata data in modo chiaro e comprensibile non può certamente escludersi» che il video sarebbe stato caricato ugualmente dall’utente e la diffamazione ai danni del ragazzino autistico compiuta. Per questo ritiene «inesigibile» un’accusa ulteriore di concorso in diffamazione pure prospettata dalle accuse per i manager Google mancando la consapevolezza del fatto delittuoso.