ROBERTO BECCANTINI, La Stampa 12/4/2010, pagina 52, 12 aprile 2010
GIGI RIVA
Gigi Riva, il 12 aprile 1970 il Cagliari si laureava campione d’Italia. Quarant’anni dopo, qual è il primo flash che le viene in mente?
«Le lacrime di Scopigno. Si atteggiava a scettico blu, ma quella domenica, dopo il 2-0 al Bari nel marasma dell’Amsicora, lo vidi piangere. Mancavano due giornate, eravamo campioni. Campioni d’Italia».
Che Sardegna era?
«Tanto per renderle l’idea. Il carabiniere che, su al nord, batteva la fiacca, lo si minacciava così: ti sbatto in Sardegna. All’epoca, non avevano ancora scoperto la Costa Smeralda: si faceva a pugni per non andarci. Oggi, si fa a pugni per andarci».
E per i sardi, lo scudetto, cosa rappresentò?
«La prima, vera, rivincita sociale. Con noi c’era una regione, una regione intera. Di solito, a Milano o a Torino, ci davano dei pecorari. Da quell’anno, non più. Le lascio immaginare l’orgoglio dei sardi migrati, non più bersagli di barzellette».
Come nacque il miracolo?
«Dalla scelta di Scopigno allenatore, da un mercato oculato e non strillato. Arrica era l’anima del club. Sapeva destreggiarsi e dire bugìe utili alla causa».
E come giocava, quel Cagliari?
«Un calcio concreto, all’italiana. Un 4-4-2 ante litteram. In porta, Albertosi. Marcatori, Martiradonna e Niccolai; libero staccato, Tomasini; fluidifcante di sinistra, Zignoli; a metà campo, Domenghini, Nené, uno scarto della Juventus, reclutato a suo tempo pensando che fosse un centravanti, Cera regista, Greatti rifinitore dietro le punte. Poi Bobo Gori, tecnicamente fortissimo, e il sottoscritto».
Cera, l’uovo di Scopigno...
«Già. Quando si infortunò Tomasini, Manlio arretrò proprio Cera, in linea con Niccolai, e al suo posto inserì Poli. Così Pier Luigi diventò un libero non solo votato al controllo, ma anche all’impostazione. Sul tipo dei Beckenbauer e degli Scirea».
Non a caso, ai Mondiali messicani, 1970, Valcareggi si portò mezza squadra: Albertosi, Niccolai, Cera, Domenghini, Gori, Riva».
«Appunto. E forgiò la Nazionale proprio sul modello Cera».
Tornando al campionato dello scudetto, quale fu il momento più difficile?
«A Palermo. Perdemmo 1-0; Monti, l’arbitro, mi annullò un gol su punizione per un fuorigioco di Martiradonna che se ne stava buono buono vicino alla bandierina del calcio d’angolo. Scopigno diede di fuori e si prese tre mesi di squalifica. La domenica successiva, giocavamo a Bari; non dimenticherò mai le sue parole: ”Se non perdiamo, vinceremo lo scudetto”. Era la 13ª giornata, ne mancavano diciassette: facemmo 0-0, e ad aprile, sempre e proprio contro il Bari, vincemmo lo scudetto».
Scopigno: chi era, al netto della maschera?
«Un uomo colto e sensibile, che sdrammatizzava tutto e rideva delle etichette che gli appiccicavano, come quella, per esempio, che non sapeva o non voleva allenarci, pensa te. Diventò ”il filosofo”».
Quel Cagliari, molto arrosto e molto fumo.
«Mi ero comperato una Dino Ferrari di seconda mano, da patito della Formula uno quale ero, e mi spingevo fino a quindici sigarette il giorno. Memorabile l’aneddotto di Asiago, durante la preparazione estiva. Notte fonda, camera d’albergo: io, Albertosi, Gori e non ricordo più chi. Si giocava a carte, dal fumo non riuscivamo a vederle, a vederci. Bussarono alla porta. Andai ad aprire. Era Scopigno. Si mise a sedere su letto: ”disturbo se fumo”?».
Quindici marzo 1970: Juventus-Cagliari 2-2, autorete di Niccolai, Riva, Anastasi su rigore, Riva su rigore. Arbitro, Concetto Lo Bello.
«Poteri forti, sudditanza psicologica: a quei tempi c’era poca tv e, dunque, meno controllo. Però Lo Bello era Lo Bello. Il migliore, anche se un po’ eccentrico. Quel pomeriggio, decretò 2 rigori molto fiscali, uno a loro e uno a noi. Solo che Albertosi parò il tiro di Haller e l’arbitro lo fece ripetere».
Morale?
«Mi salvò Cera: dai, Gigi, smettila. Ero fuori di me, volevo saltare addosso a Lo Bello, ”mi dica cosa devo dirle per farmi espellere”.
E lui?
«”Pensi a giocare”. Ci fu una trattenuta di Salvadore, fischiò: rigore per noi. Due a due. Però che stress».
Fu un ciclo breve, il vostro.
«Durò dal 1968 al 1972. Se non mi fossi rotto una gamba a Vienna, in Nazionale, lo scudetto del ”71 lo avremmo vinto ancora più facilmente. L’infortunio mandò tutto all’aria».
La stagione prima, aveva trionfato la Fiorentina. Un altro mondo, più che un altro calcio, se pensiamo alle dittature odierne.
«Arrivammo secondi, staccati di 4 punti. Ci arrendemmo solo quando la Fiorentina di Pesaola andò a vincere a Torino, sul campo della Juve. Anche allora, però, tanti errori contro, e tanti torti».
Immaginava che quel Cagliari potesse aspirare al titolo?
«In cuor mio, sì. Vivevamo un sogno, con la paura di essere svegliati. La sera prima di Cagliari-Bari, non chiusi occhio. E la sera dopo, festeggiai con gli altri scapoli e poi a casa di Arrica, con Walter Chiari».
Il punto forte di quel Cagliari?
«La volontà di spostare i nostri limiti, le nostre colonne d’Ercole».
E il punto debole, invece?
«I rincalzi. Pochi e non al livello di noi titolari».
Scopigno ruotò in tutto 16 giocatori; oggi, con i tre cambi, si arriva a 14 in una partita.
«Non a caso, stiamo parlando di quaranta anni fa...».
Ci pensa, ogni tanto?
«Sono uno che guarda avanti e non indietro. A meno che qualcuno non mi ricordi di farlo. I tifosi hanno deciso di radunare tutti noi, i ”ragazzi del Settanta”, e così qualche bottiglia l’abbiamo stappata».
Gigi Riva, cagliaritano dal 1963.
«E per sempre. Scelta di vita. La cosa buffa è che, nel Cagliari dello scudetto, non c’era manco un sardo. Tutti ”stranieri”».