Alberto Bisin, La Stampa 12/4/2010, pagina 1, 12 aprile 2010
PETROLIO IL SEGNALE DI OBAMA
Il prezzo del petrolio non raffinato (il «crudo») è salito dai 70 dollari al barile di ottobre agli 85 e oltre di questi giorni. Molti osservatori hanno cominciato a lanciare l’allarme: un sostanziale aumento del prezzo del petrolio potrebbe uccidere sul nascere la ripresa economica che i dati cominciano a far intravedere. Ma c’è davvero da preoccuparsi?
Il prezzo del petrolio non è una variabile indipendente, determinata da speculatori cattivi che pianificano la fine del mondo in sottoscala bui e fumosi. Il petrolio è essenzialmente una risorsa esauribile e quindi il suo prezzo è determinato prima di tutto dalle previsioni sulla domanda e sull’offerta futura. Quando si prevede un aumento sostenuto dell’attività produttiva globale, e quindi un aumento della domanda dei derivati del petrolio che sono utilizzati nella produzione industriale e nei trasporti, il prezzo del petrolio tende a salire. Non c’è dubbio che questa è la situazione in cui siamo in questo momento. I recenti dati sull’attività produttiva in India e Cina e anche negli Stati Uniti fanno pensare a una ripresa abbastanza solida quest’anno. Ma molti dubbi ancora persistono su quanto intensa e rapida sarà la ripresa, e questa incertezza alimenta la speculazione sul petrolio. Maggiore è l’incertezza sulle previsioni di ripresa, maggiore è l’attività speculativa perché gli speculatori scommettono l’uno contro l’altro.
Ma al di là delle fluttuazioni giorno per giorno, queste sì dovute alla speculazione, il prezzo del petrolio salirà qualora l’incremento di domanda dovuto alla ripresa non sarà compensato da un aumento dell’offerta.
Ma non ci sono ragioni rilevanti per temere una grossa rigidità dell’offerta nel breve-medio termine.
L’offerta è controllata al 40 per cento dai Paesi del cartello Opec. Questi Paesi, riunitisi a Vienna il 17 marzo, hanno deciso di mantenere le quote di produzione costanti, anche se alcuni di loro chiedono di poter aumentare la produzione effettiva e alcuni già lo fanno. Rappresentanti dell’Opec hanno dichiarato di considerare come obiettivo un prezzo tra i 75 e i 90 dollari a barile. Il ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita, Ali Naimi, si è spinto fino a dichiarare questi prezzi «quasi perfetti».
Inoltre la produzione dei Paesi che non appartengono al cartello è aumentata nel corso degli ultimi mesi. L’offerta mondiale di petrolio, quindi, cresce abbastanza rapidamente ed è ormai ai livelli del 2007. Dato lo sviluppo dell’offerta, se le previsioni della International Energy Agency - che stima un incremento della domanda per il 2010 di circa 70 mila barili al giorno, pari all’1,8 per cento rispetto al 2009 - sono corrette, non sembra il caso di essere particolarmente allarmati sugli effetti del prezzo del petrolio sulla ripresa. In condizioni economiche come quelle in cui ci troviamo, un aumento del prezzo del petrolio rallenta la ripresa economica, ma un rallentamento della ripresa riduce il prezzo del petrolio. Se la ripresa dovesse spegnersi, quindi, è più probabile che avvenga per mancanza di ossigeno che non per il prezzo del petrolio.
Naturalmente questo non significa che non ci possano essere tensioni sul mercato nel breve periodo. Ad esempio, un notevole collo di bottiglia si ha nella raffinazione: molte raffinerie hanno smesso di operare durante la crisi e il recupero della capacità produttiva è relativamente lento. I prezzi alla pompa quindi aumentano più rapidamente del prezzo del «crudo».
Ma anche i limiti alla capacità di raffinazione saranno presto superati. La vera questione petrolifera, naturalmente, si ha nel lungo periodo. Come rompere la dipendenza economica del mondo sviluppato dalle sostanze petrolifere e dai Paesi produttori? L’amministrazione Obama ha annunciato mercoledì che permetterà nuove esplorazioni petrolifere nel Golfo del Messico, in Alaska e fuori dalla costa atlantica. La decisione, che giunge dopo 20 anni di divieto, è importante non tanto per gli effetti sull’offerta (che si prevede saranno limitati) ma soprattutto per il suo effetto di segnale sulla determinazione degli Stati Uniti a limitare la propria dipendenza dalle risorse energetiche straniere. I democratici infatti, più vicini alle idee ambientaliste, sono stati fino ad ora tradizionalmente scettici rispetto alla necessità di nuove esplorazioni (erano i repubblicani, e Sarah Palin in particolare, a utilizzare durante la campagna elettorale per le presidenziali l’espressione «drill, baby, drill» con riferimento proprio alle piattaforme petrolifere off-shore). Il cambiamento di rotta dell’amministrazione Obama quindi è un segnale importante proprio perché inatteso. Speriamo sia solo l’inizio e aspettiamo di vedere il resto.